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Partito democratico e M5S: un destino incrociato

ANTONIO FLORIDIAITALIA/ROMA

Ad un mese dalle elezioni, e in attesa di capire in che modo il Pd farà il suo congresso, l’attenzione non può che spostarsi sul M5S e sulla prospettiva di un possibile schieramento (tutto da inventare) che sia in grado di proporsi come alternativa alla destra.
L’ASSEMBLEA CHE SI è tenuta a Roma sabato scorso e la creazione di un associazione che coordini, anche a livello locale, il dialogo tra pezzi della sinistra e il M5S, è un passaggio significativo, giustamente graduale nell’approccio alla questione. A sinistra, infatti, non mancano certo diffidenze sia verso il M5S che verso Conte: il sospetto è che non siano «affidabili», o che siano connotati da un inguaribile dose di trasformismo. Per prendere sul serio la questione (se e quando è seriamente formulata, perché non mancano anche toni supponenti e inaccettabili nei modi con cui viene posta), bisogna ripartire dall’analisi del voto, allargando però lo sguardo all’ultimo quindicennio. Non lo possiamo fare nello spazio di un articolo. Il nodo però è chiaro: dal 2013 ad oggi, si è prodotta una significativa mutazione della constituency del M5S, ossia è cambiata la composizione del suo elettorato, ma sono anche cambiate le aspettative e le motivazioni politiche che hanno orientato il voto al M5S di Conte. L’elettorato «trasversale» del 2013 è oramai un ricordo lontano: quanti allora provenivano da destra, a destra son tornati già nel 2018 e poi nel 2019; quanti venivano da sinistra, dopo magari essersi astenuti o girovagato nelle elezioni locali, nel M5S sono rimasti o si sono ora riattivati. E altri elettori sono arrivati. Conte sarà pure un parvenu, un modesto avvocato pugliese, ma si ha l’impressione che stia imparando molto bene il suo nuovo lavoro. E tanti soloni, dopo aver «toppato» abbondantemente in tutti questi anni, farebbero bene ora ad essere prudenti. Guardando, ad esempio, ad alcuni aspetti della campagna elettorale: a differenza di un Pd appiattito su Draghi (pensando che fosse il più amato dagli italiani), Conte ha saputo valorizzare la sua esperienza di governo, che era stata dignitosa e che evidentemente era stata apprezzata. Un clamoroso harakiri per il Pd, che pure a quel governo aveva contribuito.
TUTTO CIÒ PER DIRE che non tutto dipende dalla cultura politica soggettiva di una leadership: conta anche l’investimento, per così dire, che gli elettori fanno su di essa con il proprio voto. A volte è la forza delle cose, la collocazione e le circostanze in cui una leadership si trova ad operare, che determina le scelte. E il 25 settembre, chiaramente, fosse anche solo perché questa era l’offerta che si trovavano di fronte, molti elettori di sinistra hanno visto nel voto al M5S una scelta «utile» a riaprire il gioco asfittico del campo «progressista». E questi elettori, lo si può ben dire, hanno visto giusto: perché ora i nuovi rapporti di forza che si sono creati tolgono ogni credibilità alla riproposizione, da parte del Pd, di una qualsivoglia «vocazione maggioritaria»; e lo costringono a sciogliere finalmente il nodo della sua identità: vuole essere un partito «liberal» che guarda al centro o essere parte di uno schieramento democratico che si fondi su un progetto di reale trasformazione del nostro paese e su una virtuosa competizione con altri soggetti che, come il M5S, riescono a rappresentare pezzi della società italiana molto meglio di quanto finora sia riuscito a fare il Pd?
IL VOTO CONSEGNA al M5S una posizione determinante per una qualsivoglia coalizione che si proponga di costruire un’alternativa alla destra (lo capiranno nel Pd?); ma proprio per questo, cresce anche la responsabilità politica che ora pesa sulle spalle del nuovo gruppo dirigente del M5S. Al di là della comprensibile cautela con cui si guarda oggi alle vicende del Pd, e della sacrosanta autonomia con cui vengono definite le proprie posizioni programmatiche, il tema sarà quello di una vera e propria «sfida egemonica», come giustamente il manifesto ha titolato l’articolo sull’assemblea di sabato: il che vuol dire non una meschina partita a rubamazzetto (di voti), ma un vero confronto politico sul modo migliore di interpretare oggi un progetto democratico e di sinistra per il nostro paese. E anche sul terreno della capacità di rappresentanza sociale, su cui anzi potrebbe svilupparsi una proficua complementarietà tra il Pd e il M5S.
IL NUOVO GRUPPO dirigente del M5S dovrebbe lanciare la sfida al Pd anche su un altro terreno: quello dei modelli di democrazia con cui si governa un partito. È stato questo, nel corso degli anni, il vero tallone di Achille del M5S, l’idea di Grillo di un non-partito, e un uso plebiscitario della stessa piattaforma digitale, come luogo di ratifica delle decisioni di un gruppo dirigente dalla debole legittimazione. Una informalità e precarietà procedurale che ha contribuito non poco, nel corso degli anni, a trasmettere l’immagine di un Movimento sempre sull’orlo dell’implosione finale. Superare questi limiti, costruire una presenza territoriale, definire meglio le procedure per la selezione dei gruppi dirigenti, rendere più trasparente il dibattito interno, sono obiettivi che il M5S dovrebbe perseguire, se vuole consolidare il suo profilo. Ma certo, non può essere quello del Pd, il pulpito da cui viene la predica: un Pd, dove finora c’è stato un regime plebiscitario e feudale nello stesso tempo. E non è detto che rinsavisca (ne riparleremo certamente...).

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