CULTURA

Quell’arte di «inventare la vita»

Intervista con la curatrice Nadia Fusini, traduttrice, critica letteraria e massima esperta di Virginia Woolf in Italia
SARA DE SIMONEGB/ITALIA/ROMA

Più di cento anni fa, nell’autunno del 1904, i fratelli Stephen – Vanessa, Virginia, Thoby e Adrian – traslocano dal quartiere di Kensington a quello di Bloomsbury. Il loro padre, Sir Leslie Stephen, noto intellettuale vittoriano e celebrato direttore del monumentale Dictionary of National Biography, è morto nel febbraio dello stesso anno. Per i giovani Stephen è il momento di cambiare aria: via le pesanti tende di broccato, via i mobili laccati di nero e i velluti scuri che incupivano la grande casa paterna al numero 22 di Hyde Park Gate. Lunga vita alle pareti chiare, ai tessuti colorati e alle alte, luminose, finestre sull’ariosa e vivace Gordon Square. I parenti e gli amici di lunga data dei rispettabilissimi Leslie e Julia Stephen sono esterrefatti: quattro ragazzi di buona famiglia in un quartiere malfamato? Maschi e femmine che vivono insieme? Senza genitori, senza servitù, senza chaperon, senza nessuno che preservi la rispettabilità del loro nome e – per quanto riguarda le ragazze – dei loro corpi? È un’indecenza. Uno scandalo.
Eppure, è proprio in quella casa dello «scandalo» che, a partire dal 1905, comincia a riunirsi un piccolo gruppo di giovani amici: sono intellettuali, artisti, donne e uomini nel fiore degli anni, che non hanno nessun programma, ma molte idee. Desiderano ripensare il mondo che li circonda, e vogliono farlo insieme. Discutono fino a tarda notte di letteratura, s’interrogano sulla bellezza e sull’etica – perché per loro bellezza e etica vanno insieme –, non hanno paura di amare in modo non convenzionale e, nel tempo, raccolgono attorno al proprio nucleo molti altri amici, giovani e meno giovani, che come loro desiderano dare forma a un’altra vita. Sono Virginia Woolf, Vanessa Bell, Lytton Strachey, Maynard Keynes, Clive Bell, Dora Carrington, Leonard Woolf, Duncan Grant, Roger Fry, e molti altri. Scrivono libri, dipingono quadri, aprono case editrici e atelier di design. Hanno stanze tutte per sé – ciascuno e ciascuna la propria – e le arredano con colori audaci e forme nuove.
Costruiscono case che sono mondi, e in quei mondi continuano a incontrarsi nel tempo. Dal 26 ottobre, una mostra senza precedenti in Italia ripercorre le esistenze e le opere dei membri del Bloomsbury Group, e di tutte e tutti coloro che vi gravitarono attorno negli anni. La curatrice Nadia Fusini – traduttrice, critica letteraria e massima esperta di Virginia Woolf in Italia – ha scelto di mettere al centro della mostra proprio l’immagine della casa, come spazio in cui si «inventa la vita».
Tutto comincia con una casa, non è vero?
Sì, una casa a Bloomsbury che ha il senso di una libertà conquistata, che non è più la casa del padre, la casa patriarcale, ma uno spazio fisico che corrisponde a uno spazio del pensiero. Virginia Woolf è molto chiara al riguardo: senza la materialità di un luogo tutto per sé non si può scrivere, non si può creare.
Al numero 46 di Gordon Square le due sorelle, Vanessa e Virginia, hanno finalmente una stanza tutta per sé, ciascuna la propria. È partendo da questo spazio conquistato, che possono creare un luogo per incontrare i propri amici e condividere con loro un’esperienza comunitaria. Bloomsbury non è un club, e neppure un circolo, è un gruppo di persone che stanno insieme, in maniera vera e feconda, perché pensare assieme li appassiona.
Insieme all’immagine centrale della casa, c’è quella della stanza, che lei ha scelto di utilizzare come filo conduttore della mostra.
Il Museo Nazionale Romano a Palazzo Altemps – luogo che Virginia avrebbe amato molto – ha messo a disposizione della mostra una sequenza di stanze. Mi piaceva l’idea che i visitatori le attraversassero come spazi fisici e simbolici: dalla stanza tutta per sé di Virginia, al salotto in cui s’incontravano i membri del gruppo, alla stanza della Hogarth Press, la casa editrice dei Woolf, che per anni ebbe sede in uno spazio domestico, la loro casa per l’appunto. La pressa con cui stampavano i libri era infatti sistemata sul tavolo della sala da pranzo: capolavori come Preludio di Katherine Mansfield e i Poems di T.S. Eliot furono stampati così, dentro casa, grazie al lavoro manuale di Virginia e Leonard.
C’erano poi gli Omega Workshops, il laboratorio di design d’interni aperto dal critico d’arte Roger Fry, a cui pure la mostra dedica spazio e attenzione.
Bloomsbury non è solo un luogo di pensiero, ma anche uno spazio del fare. Queste donne e questi uomini sono degli entrepreneurs, nel senso più alto del termine. Sono intraprendenti, e vogliono realizzare delle imprese: una di queste è quella di trasformare il gesto artistico in un gesto che crea oggetti di uso comune. Vogliono creare cose belle per tutti: tazze, poltrone, tessuti, vasi. Chi ha detto che un piatto non può essere un’opera d’arte? E che un’opera d’arte non debba essere alla portata di tutti? Mi sembra giusto e democratico. E attenua la contraddizione tra estetica e mercato, trattandosi di oggetti unici, singolari, inventati uno per uno dalla mente di un artista.
A proposito di «inventare», lei ha scelto di inserire nel titolo della mostra una frase in inglese, che è quasi un motto: «Inventing Life». Ci dice di più?
Lavorando negli anni su Virginia Woolf e Bloomsbury mi sono resa conto che la vera forza di questo gruppo è proprio questa: per loro il problema della forma, che per ogni artista è centrale, non è mai esclusivamente «formale». Inventare delle forme significa inventare delle nuove forme di vita. Virginia, Vanessa e gli altri, elaborano attraverso le loro opere anche un nuovo modo di stare al mondo, che sia all’altezza dei desideri e delle motivazioni profonde che ciascuno porta dentro di sé, nel proprio tempo. Nel loro tempo, queste giovani donne e uomini ebbero il coraggio di sfidare codici e canoni che non li rappresentavano, per inventare qualcosa di diverso, senza che questo qualcosa si trasformasse in una nuova ideologia, da contrapporre alla vecchia. Non c’era nulla di ideologico nel loro modo di affrontare la propria diversità: se amavano persone dello stesso sesso, o se non consideravano la fedeltà come la più alta forma di rispetto dovuta alla persona amata, non per questo sentivano il bisogno di trasformarlo in un credo. Lo vivevano e basta. E nel viverlo restavano nel campo della ricerca, del movimento, dell’invenzione.
Che significa anche saper restare nell’incertezza?
Io la definirei una «disposizione creativa». Nella vita, come nell’arte. È un tratto di profonda verità che le artiste e gli artisti di Bloomsbury condividevano. Si possono inventare nuove forme – e nuove vite – solo se ci si espone allo shock della realtà, ovvero all’emozione di uno sguardo e di un ascolto del mondo che scuote, che trasforma continuamente.
E la felicità, in che stanza si trova?
Nella stanza in cui si sta insieme. «Society is the happiness of life»: a Bloomsbury avevano compreso, e messo in pratica, questo verso di Shakespeare. Soltanto incontrandosi – mettendo esperienze e desideri in comune – si può essere felici. E, insieme, accogliere il rischio e l’avventura di inventare la vita.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it