CULTURA

La resistenza del corpo contro i dispositivi dei sistemi di controllo

La mostra monografica dedicata a Bruce Nauman all’HangarBicocca di Milano, fino al 26 febbraio 2023
TERESA MACRÌITALIA/MILANO

Bruce Nauman o del sublime. Sì, perché Nauman (nato a Fort Wayne, 1941 vive nel deserto del New Mexico dal 1979) è l’artista vivente che nel corso di più di mezzo secolo di ricerca, ha decostruito la grammatica artistica, con una attività disturbante e sperimentale, attraverso l’uso concettuale e performativo del linguaggio e del corpo. Laureato in matematica e fisica, ha filigranato la sua conoscenza scientifica in un paradigma rigoroso che esplora le tensioni psico-spaziali all’interno della soggettività.
IL DISAGIO, L’EMPATIA, il fallimento, la frattura e ciò che Barthes definiva «la voce decorativa di una carne sconosciuta e segreta» vengono scavati e fatti riaffiorare dal suo alfabeto fibroso, stratificato tra performance, scultura, foto, installazione, disegno, film e video, audio nonché dalla plasticità della parola.
Disturbo, sbilanciamento, tentazione nonché malìa sono le sensazioni pellicolari che si ritrovano nella mostra Bruce Nauman. Neons Corridors Rooms, all’HangarBicocca di Milano, curata da Roberta Tenconi e Vicente Todolí con Andrea Lissoni, Nicholas Serota, Leontine Coelewij, Martijn van Nieuwenhuyzen e Katy Wan e che costringe a inabissarsi nel percorso esperenziale delle trenta opere proposte. È un percorso non solo memorabile ma nodale per capire senza retoriche, la dimensione psichica del corpo all’interno dei sistemi sociali di controllo nella sfera contemporanea.
IL CORPO, minato da strutture di dominio e di interdizione, si misura con esse per resistervi, rendendo il disappunto e la disappearance fisica non solo visibili ma in qualche modo anche palpabili. A ciò servono i Corridors, «strutture partecipative» della fine degli anni 60, che spostano il focus del suo lavoro sulla esperienza del fruitore rendendolo partecipe, sì da attivare un rovesciamento di senso. Sottraendo la propria presenza, Nauman realizza Performance Corridor (1969) che segna la svolta di questa transizione e che dà l’incipit, attraverso un videotape, alla mostra.
IL PROCESSO ha origine con Walk with Contrapposto (1968) in cui, camminando su e giù per un esiziale passaggio e spostando i fianchi avanti e indietro a ogni passo, imita la convenzione delle pose delle sculture classiche.
Il corridoio stesso è una struttura formata da due pareti parallele, distanziate di 50 centimetri e la cui esiguità contiene solo il movimento del corpo dell’artista. Nei successivi Corridors, sviluppati secondo ineccepibili volumi geometrici, usa una serie di dispositivi (che possono perfino manifestarsi come foto-claustrofobici) come specchi in Installation with Mirror-San Jose Installation (Double Wedge Corridor with Mirror), 1970, o luce fluorescente colorata, come in Dream Passage with Four Corridors (’84), Green Light Corridor (’70), o camere a circuito chiuso come in Going Around the Corner Piece with Live and Taped Monitors (’70), Corridor Installation (Nick Wilder Installation), o con la voce, come in False Silence (1975).
Fino alla spiazzante Kassel Corridor: Elliptical Space (1972) realizzata per Documenta 5, che si avviluppa in un lungo e alto corridoio curvo con una porta chiusa al centro. La chiave della porta viene data a una sola persona, per un massimo di una ora, e non può essere condivisa con altri. Entrando nel corridoio, lo spettatore rimane in piedi, intrappolato e tenuto sotto sorveglianza al suo interno. Il corridoio è un dispositivo di perdita del sé, di spaesamento, di incontro con l’inconscio e deviazione della realtà poiché ridisegna la prossemica, manipola la psiche ed è la metafora eclatante della costrizione esistenziale.
NAUMAN (Leone d’oro alla 48/a Biennale di Venezia del 1999) inoltre, nella sua adesione intellettiva a Wittgenstein, sperimenta giochi linguistici come nello spiralico neon The True Artist Helps the World by Revealing Mystic Truths (1967) dove allude alla responsabilità intellettuale dell’artista. E, con un accento quasi dada, trascrive il suo nome nel selenico My Name As Though It Were Written on the Surface of the Moon (1968). Mentre in One Hundred Live and Die (1984) concepisce una minacciosa dicotomia dei termini «Live/ Die», quasi incarnando lo zeitgeist degli anni ’80 imposto dal neoliberismo.
La mostra slitta nell’installazione Mapping the Studio II with color shift, flip, flop, & flip/flop (Fat Chance John Cage) del 2001, organizzata su 7 canali (in colorazioni diverse e ruotate di 90 e 180 gradi) che sfruttando i sistemi di videosorveglianza notturna del suo studio in New Mexico ne registra sia il suo vuoto che le attività notturne (topo, falene, gatto) durante la sua assenza.
Poi meticolosamente annota al timecode le loro apparizioni e ne scompone e ricompone le sequenze. Disseminati nelle Navate ecco alcuni conturbanti Tunnels come Three Dead-End Adjacent Tunnels, Not Connected (1981), Model for Tunnels: Half Square, Half Triangle, and Half Circle with Double False Perspective (1981), Untitled (Model for Trench Shaftand Tunnel) (1978). La gran parte dei lavori esposti all’HangarBicocca sono sorretti da un sistema di sospensione funambolico, che li rende ancor più fantasmatici. Infine, all’esterno, Raw Materials (2004) l’installazione sonora di 21 tracce, è quell’ulteriore brivido, creato dalla registrazione di ansiosi testi, letti ossessivamente, che Nauman, diabolicamente, scaraventa nelle nostre sinapsi.

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