COMMENTO

Le lezioni della crisi nel tornante stretto della storia

L’incarico
MASSIMO VILLONEITALIA/ROMA

Il vestito inaugurale del governo reca strappi vistosi. Oltre gli sconosciuti ai più che hanno sostituito gli esponenti di alto profilo inizialmente auspicati, quello più grave viene dal «dolcissimo Putin» evocato da Silvio Berlusconi.
Danno aggravato dall’applauso della platea forzista. Ma esternazione e applauso sembrano aver accelerato, piuttosto che ritardato, il passo della crisi. Anzitutto, Meloni ha accettato l’incarico di formare il governo senza riserva. Pochissimi i precedenti. In tempi recenti, ricordiamo il voto del 13-14 aprile 2008. Dalle cronache ricaviamo che il 7 maggio Berlusconi si recò al Quirinale intorno alle 19.30, con la lista dei ministri. Ricevette l’incarico, che accettò senza riserva, immediatamente presentando - come risulta dal comunicato del Quirinale - la lista dei ministri. Nella stessa data il Presidente della Repubblica accettò le dimissioni per il precedente governo, e nominò il presidente del consiglio e i ministri di quello nuovo (IV Berlusconi).
C’è stato poi il difficile parto del governo gialloverde nella XVIII legislatura. Dopo il voto del 4 marzo 2018 Conte ricevette un primo incarico, cui rinunciò per la bocciatura di Paolo Savona come ministro dell’economia. Il 28 maggio 2018 fu incaricato per un governo tecnico Cottarelli, che rinunciò il 31 maggio. Nel comunicato del Quirinale del 31 maggio si legge che Mattarella «ha ricevuto questa sera al Palazzo del Quirinale il professor Giuseppe Conte al quale ha conferito l’incarico di formare il governo. Il professor Conte ha accettato l’incarico e ha presentato al Presidente della Repubblica la lista dei Ministri». Il 1° giugno ebbe luogo il giuramento.
Meloni ha seguito questi precedenti. Ha accettato senza riserva, contestualmente presentando - in un lungo incontro - la lista dei ministri. Nomina subito da parte di Mattarella, giuramento sabato. Ci sono i nomi oggetto di qualche turbolenza, come Tajani e Salvini rispettivamente agli esteri e alle infrastrutture, e vicepresidenti. Nordio alla giustizia e Casellati alle riforme sanciscono la sconfitta di Berlusconi. La nomina di Calderoli alle autonomie potrebbe essere una cambiale pagata all’alleato leghista.
Dalla dichiarazione di Mattarella dopo l’incontro non sono emersi problemi particolari. D’altronde, va considerato che l’elemento essenziale cui il capo dello stato deve guardare è che vi sia nelle Camere una maggioranza per la fiducia. Non deve contare il suo personale gradimento per le politiche del governo che nasce, o per il curriculum vitae di chi ne fa parte. In rare occasioni ha opposto un diniego alla proposta ricevuta. Ma è l’eccezione, riassumibile nell’ipotesi che dal nome in sé può desumersi un indirizzo, e quindi in prospettiva atti di governo potenzialmente confliggenti con il ruolo di garante dello stesso capo dello stato.
Il caso più noto è quello, prima menzionato, di Savona. Ricordiamo la puntigliosa difesa della propria scelta da parte di Mattarella, che forse segnala la consapevolezza di un passo discutibile. Certo, mentre Meloni non sembra aver avuto problemi con Mattarella, potrebbe aver aggravato quelli che ha in casa con i riottosi compagni di strada. Si capirà con il voto di fiducia, o, con maggiore probabilità, nel governare giorno per giorno.
Intanto, la crisi che va a chiudersi offre qualche lezione. La forma di governo parlamentare, tanto vituperata dagli adoratori del falso idolo della governabilità/stabilità, ha dimostrato, nella legislatura appena chiusa e nell’avvio della nuova, flessibilità e resilienza. Ha consentito di affrontare senza drammi lo stretto tornante nella storia della Repubblica che il governo della destra di per sé rappresenta, e la successione comunque difficile a Draghi. Mentre i modelli che si vorrebbero imitare in chiave di investitura popolare di chi governa mostrano le proprie debolezze. Basta guardare agli Usa, alla Francia, fino alla ultima clamorosa vicenda della Truss in Gb. Avrebbero dato risultati migliori? Ne possiamo dubitare.
Un vero piano di riforme - che mi piacerebbe definire di sinistra - per stabilizzare il sistema politico del paese dovrebbe guardare a tutt’altro: una legge elettorale proporzionale, una legge sui partiti politici, un ripristino del finanziamento pubblico della politica. Sarebbe utile anche una rivisitazione del Titolo V. Ma a guardare le forze in campo, di maggioranza e di opposizione, è difficile trovare ragioni di ottimismo.

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