POLITICA

Il neo eletto svicola sui tre pilastri dell’antifascimo

La vertigine
DAVIDE CONTIITALIA/ROMA

Ignazio La Russa, dopo un’elezione contrastata da una parte della sua stessa maggioranza, parla dallo scranno più alto del Senato dopo le parole alte e nobili di Liliana Segre. Si relaziona ad esse fugacemente, stando attento a non affrontarle per quelle che sono e per quello che significano, all’inizio di una legislatura in cui si dovrebbe assistere, per la prima volta, all’insediamento di una erede diretta del partito postfascista alla guida del governo del Paese.
La Russa si limita a commentare il discorso di Segre con una formula dal sapore tanto rituale quanto liquidatorio: «Non c’è una sola parola di quello che ha detto che non ha meritato il mio applauso». Tuttavia di fronte alle grandi questioni storiche richiamate, lo iato tra la senatrice a vita scampata alla Shoah e l’ex militante postfascista del Msi è stato evidente.
Per Segre «la Costituzione è il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l’unità del popolo italiano» e rappresenta - citando Piero Calamandrei - «il testamento di 100.000 morti della lotta per la libertà». Una Resistenza iniziata non nel settembre 1943 ma fin dall’avvento del regime fascista al potere (come illustra l’assassinio di Giacomo Matteotti). Il popolo italiano «ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica. Ed ogni volta che è stato interpellato ha sempre scelto di difenderla perché da essa si è sentito difeso».
Semmai è la mancata attuazione della Costituzione - come richiama Segre - a rappresentare il convitato di pietra di qualunque discussione su fantomatiche grandi riforme che malcelano la sempre più diffusa ostilità delle classi dirigenti liberali e liberiste al senso profondo della nostra democrazia costituzionale ed allo stesso spirito costituente del secondo dopoguerra.

Dal canto suo il presidente neoeletto prova a citare in modo sbilenco Sandro Pertini, ma sulle questioni di fondo sfugge di fronte alla profondità delle parole e dei significati espressi da Segre che individua e fissa i tre pilastri della storia patria nel 25 aprile (Liberazione dal nazifascismo), nel 1° maggio (Festa dei lavoratori) e nel 2 giugno (nascita della Repubblica) come date fondativo-valoriali della democrazia italiana. Di fronte al peso storico di quegli eventi ed alla contraddizione in termini rispetto alla sua radice politica d’origine, Ignazio La Russa si rifugia dietro lo scudo di una parola chiave: quella «pacificazione» che la destra traduce in equiparazione tra partigiani e «ragazzi di Salò». Una formula che dopo il 1989 e la fine della Guerra Fredda ha avuto nuovo conio da sinistra grazie al prezioso e ambiguo lascito del discorso di insediamento di Luciano Violante (che non a caso La Russa cita e ringrazia) alla presidenza della Camera nel 1996.
Sulla Costituzione, poi, indica «la necessità» di modifiche (alludendo al presidenzialismo pur senza menzionarlo) per rispondere a indefinite nuove esigenze di risposte da dare ai cittadini, adombrando l’eterno ritorno della bicamerale o ipotetiche assemblee neocostituenti.
Segre si emoziona (ed emoziona chi la ascolta) nel ricordare che «tocca ad una come me» (ebrea e perseguitata dal razzismo dello Stato fascista propagandato durante il ventennio mussoliniano da figure come Giorgio Almirante su riviste come «La difesa della razza») aprire i lavori della nuova legislatura nel centenario della cosiddetta «marcia su Roma».
La Russa, dal canto suo, ignora del tutto qualunque richiamo all’avvento della dittatura di Mussolini, rivendicando semmai di «aver sviluppato le sue idee senza mai tradirle».
La pacificazione attraversa anche gli anni Sessanta e Settanta nel discorso di La Russa. Così il fenomeno del terrorismo in Italia è rappresentato e condensato in tre episodi accaduti nella «sua Milano», ovvero gli omicidi del militante del Msi Sergio Ramelli, dei militanti della sinistra extraparlamentare del centro sociale «Leoncavallo» Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci e del commissario di polizia Luigi Calabresi.
Nessun cenno alla bomba di Piazza Fontana che sconvolse la «sua» Milano il 12 dicembre 1969. Una strage compiuta dal gruppo neofascista Ordine Nuovo fondato da Pino Rauti, già reduce di Salò, dirigente e segretario del Msi nonché padre della deputata di Fratelli d’Italia Isabella, eletta proprio a Milano (nel collegio di Sesto San Giovanni) in competizione con Emanuele Fiano, figlio di Nedo Fiano deportato insieme a tutta la sua famiglia ad Auschwitz.
Nel suo intervento La Russa esordisce spiegando che anni addietro l’elezione alla seconda carica della Repubblica di un esponente postfascista «non era possibile, sognabile e immaginabile».
Su questo siamo d’accordo con lui.

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