COMMENTO

Il Pd, la sconfitta e l’alibi delle poltrone

Verso il Congresso
FRANCESCO PALLANTEITALIA

Quando questo governo cadrà... dovremo chiedere le elezioni anticipate, nessun governo di salute pubblica... Noi oggi cominciamo un percorso congressuale ma questo è intimamente connesso al lavoro di opposizione che da oggi comincia».
Così Enrico Letta, nella veste di segretario uscente, alla direzione nazionale del Partito democratico del 6 ottobre scorso. E ancora: «Perché il mandato che ci ha dato il voto è quello di guida dell’opposizione».
Parole salutate con generale favore dai commentatori, come segnale della, tardiva ma necessaria, presa d’atto dell’errore che avrebbe reso invisi i democratici persino a tanti dei loro elettori: l’essersi trasformati nel partito delle poltrone, sempre al governo dal 2011 a oggi, con la breve eccezione del primo esecutivo guidato da Conte.
Sempre al governo, dunque, sebbene sempre sconfitti alle elezioni: a dimostrazione di un’attitudine al gioco di palazzo tanto spregiudicata da essersi, infine, trasformata in una trappola per i suoi stessi fautori.
C’è del condivisibile, in questa lettura, che raramente viene, tuttavia, condotta sino alle sue logiche conseguenze: vale a dire, alla presa d’atto che il vuoto in cui oramai si muovono i partiti politici è così spinto che senza risorse di potere governative (nemmeno più parlamentari: governative) a cui ancorarsi sono ridotti alla condizione di un palloncino che vaga per il cielo in balia dei venti. E, più di tutti, proprio il Partito democratico, nato, per esplicito disegno del suo fondatore, come partito leggero.
Ma c’è anche del discutibile, in questa lettura, che prova, al contempo, troppo e troppo poco.
Prova troppo, perché non è vero che in un sistema parlamentare, com’è il nostro, le elezioni servono a sancire vincitori e vinti. Le elezioni servono a eleggere il parlamento, non il governo, e qualsiasi governo nato nel corso della legislatura è legittimo tanto quanto quello nato subito dopo il voto, alla sola condizione che goda della fiducia del parlamento. È il modo in cui ordinariamente funzionano i regimi parlamentari. Le elezioni registrano il consenso, crescente o calante rispetto alla volta precedente, di cui godono i partiti politici e, dunque, la consistenza parlamentare con cui potranno dar sostegno alle proprie idee. Dopodiché, si tratta di fare politica: di creare convergenze e alleanze, di sfruttare contraddizioni e debolezze altrui. Certo, una legislazione elettorale compatibile con il quadro costituzionale aiuterebbe, a partire dal riconoscimento che nessuna democrazia garantisce la creazione di una maggioranza assoluta per la durata della legislatura. Nessuna: non la Spagna, non la Germania, non il Regno unito; e nemmeno i sistemi presidenzialisti come la Francia e gli Stati uniti d’America.
La tesi delle poltrone prova, tuttavia, anche troppo poco, perché enfatizzare la vocazione governista del Pd, imputandole la spiegazione dell’insuccesso alle elezioni, è un alibi assai comodo per non dover rispondere delle politiche realizzate, o non realizzate, durante il decennio passato al governo. Se i ministri democratici fossero stati in tutto questo tempo impegnati in una lotta radicale alle diseguaglianze sociali, alla povertà dilagante, al lavoro precario e sottopagato, alla disoccupazione (specie giovanile), al sottofinanziamento dei diritti sociali (la sanità, l’istruzione, la casa, i beni culturali casa), all’evasione fiscale, alla devastazione dell’ambiente e del paesaggio, al cambiamento climatico: siamo sicuri che il risultato elettorale sarebbe stato ugualmente insoddisfacente?
Il punto non è essere stati troppo a lungo al governo: è essere stati troppo a lungo al governo avendo essenzialmente il fine di rimanere al governo per perpetuare l’esistente, senza la minima volontà e capacità di affrontare le emergenze sociali e ambientali che minacciano il nostro futuro e che pure sono ben note, ben studiate e, oramai, anche ben “corredate” di possibili soluzioni. Sarà banale, ma alla fine non è tanto questione di segretari, di nomi, di simboli o di poltrone: è questione di politiche. Riuscirà, finalmente, il Pd a farne il tema centrale del suo prossimo congresso?

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