CULTURA

Barnor, meraviglie della vita a colori

ARIANNA DI GENOVA africa/ghana/londra/lugano

James Barnor è stato il primo fotoreporter del suo paese, il Ghana. Oggi ha 93 anni e ancora lavora con il suo spirito sospeso fra due continenti: l’Europa vista dall’angolazione di Londra (dove vive) e l’Africa che si è portato sempre dietro per i sei decenni in cui ha raccontato, da testimone speciale, i numerosi rivolgimenti sociali e politici del suo tempo, abbracciando diversi generi - dal fotogiornalismo ai ritratti in studio, dagli scatti documentari fino a quelli di moda o intorno agli Swinging Sixties. Il Masi di Lugano gli dedica un’ampia retrospettiva (fino al 31 luglio, in collaborazione con Serpentine, a cura di Lizzie Carey Thomas e Awa Konaté; prossima tappa, nella primavera del 2023 sarà al Detroit Institute of Arts) presentando una selezione di oltre duecento lavori, molti dei quali provenienti dal vasto archivio personale di Barnor (più di 32mila negativi): una mostra, quindi, costellata da molte immagini inedite, opere vintage, ristampe, originali, copertine di riviste e dischi.
La sua passione per la fotografia risale all’infanzia: ci sono stati «insegnanti» in famiglia?
La fotografia è sempre stata presente nella mia casa, anche ben prima della mia nascita. C’erano tre fotografi intorno a me durante la mia crescita: lo zio materno William Ankrah, poi Julius Aikins e J.P.D.Dodoo. Dodoo era molto stimato, così io sono stato mandato da lui per imparare tutto sulla professione. Mi ha dato lezioni gratuitamente perché facevo parte della famiglia. L’apprendistato è stato duro, non c’erano programmi da seguire, studiavo assorbendo tutto ciò che accadeva in studio. Anche Aikins mi ha aiutato e ha ribaltato la mia visione della fotografia. Mi lasciava rimanere a casa sua: io lo guardavo lavorare e lui mi suggeriva numerosi libri da leggere e sfogliare.
Nel 1953, la decisione di aprire ad Accra lo studio Ever Young. Cosa significava a quel tempo essere un fotografo?
In quegli anni, in realtà erano fotografi solo i bianchi. I ghanesi sono arrivati dopo indipendenza. Inoltre, nel mio paese solo un paio di persone potevano contare su quello che oggi possiamo definire uno studio. I fotografi avevano bisogno di una camera oscura per esercitarsi, ma un atelier era molto di più. Quando mio zio si è ritirato, mi ha passato la sua attrezzatura fotografica. Così ho iniziato a scattare per strada con la luce del giorno, lavorando dalla casa di famiglia. Più tardi, ho cominciato a stampare e sviluppare nella stanza di mia zia, dove ho portato l’elettricità. Il posto in cui aprii lo studio era fortunatamente grande. Mi ha cambiato la vita. Invitavo lì i giovani ghanesi, trasformando quello spazio in una «piazza» in cui le persone potessero discutere, confrontarsi e scambiando le proprie idee. Quel luogo diventò rapidamente una novità: non ce n’erano così tanti muniti di elettricità.
Ci può raccontare del suo ritorno in Ghana, alla fine degli anni Sessanta?
Lavoravo presso il Colour Processing Laboratory nel Regno Unito (dove si era trasferito nel 1959, ndr), quando arrivò l’opportunità di Agfa-Gevaert in Ghana. Sebbene fossi ormai ben ambientato - avevo anche la mia macchina fotografica per i servizi sulla rivista Drum e per gli amici - ho pensato che, con le competenze acquisite nella stampa a colori, dovessi tornare in Ghana. L’inizio è stato difficoltoso, neanche il direttore generale olandese di Agfa-Gevaert credeva che potessi stampare a colori e mi toccava dargli ragione. Fino che non ho dimostrato il contrario: ho allestito un piccolo set con bottiglie colorate vicino ad alcune bandiere Agfa-Gevaert e ho scattato la foto. Poi l’ho sviluppata con tutta la gamma cromatica esistente nella vita reale. Inoltre, il manager olandese credeva che quella attività fosse fallimentare. Era convinto che le persone in grado di permettersi il colore vivessero tutte all’estero e non ci avrebbero commissionato lavori. Ma ancora una volta si sbagliava: una ditta di spedizioni venne da noi per fare una pubblicità a colori sulle loro cartoline di Natale: volevano che la stampassimo. L’ordine era così grande che finimmo le scorte di carta. Dopo tre anni ho lasciato quel laboratorio, ho lavorato brevemente per l’ambasciata americana e, alla fine, ho aperto il mio secondo studio, Studio X23. È stato proprio in quell’epoca che ho lavorato con Emmanuel Odartey Lamptey, il grafico che mi commissionò numerose copertine di dischi.

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