VISIONI

Saburo Teshigawara, la tensione dolente verso un'altra bellezza

FRANCESCA PEDRONI ITALIA/VENEZIA

Colletto bianco, abito nero, una maschera biancastra aderente al viso. Schiacciato tra assordanti rumori di strada, il pupazzo si muove stranito in una porta centrale di luce. Penombra. Buio. Sparizione. Torna la luce, fattasi rossa. Con essa riappare il pupazzo. Al centro, lo sguardo stupito. Il corpo vive in un flusso disarticolato di accenti geometrici nella mobilità. Il focus del movimento si sposta da un fianco a un piede, da un polso a un’inclinazione della testa, scostato dal centro. Saburo Teshigawara è Petrouchka.
SIAMO A VENEZIA, al Teatro Malibran, nel primo weekend di Boundary-Less, 16° Festival di Danza Contemporanea della Biennale di Venezia, ideato dal direttore del settore danza della Biennale, Wayne McGregor. Saburo Teshigawara, coreografo, danzatore, artista visivo giapponese, classe 1953, è il Leone d’Oro alla carriera di quest’anno, un protagonista chiave che ha aperto il festival con la prima assoluta del suo Petrouchka, inedita riscrittura di uno dei capolavori dei Balletti Russi di Diaghilev.
L’anno del debutto era il 1911, musica di Igor Stravinskij, coreografia di Mikhail Fokine, protagonista principale Vaslav Nijinskij. Un pezzo all’origine di 35 minuti, che Teshigawara dilata a 60, con una folgorante stratificazione di leit motiv musicali, in cui torna più volte quel famoso grido di Petrouchka da cui la partitura del balletto di Stravinskij iniziò a prendere forma. Teshigawara lavora sulla musica, non sulla coreografia di Fokine. La sua scrittura di movimento è una creazione autonoma e in ciò è la sua forza e identità. Freme così, come una rimembranza sottotraccia, la figura solitaria, tormentata del Nijinskij artista e uomo, frammenti che dalla singola autobiografia ci catapultano ben più lontano, dentro quel senso di incertezza, di perenne ricerca nell’ignoto che attanaglia l’umanità tutta.
La marionetta, con il suo gesto folgorante in nitidezza, è il tramite. E Teshigawara è l’agonia, la tensione dolente verso la bellezza. Stravinskij, mischiato a brevi accenni da Nino Rota e ai rumori della strada, ci proietta nei quattro quadri del balletto originale, la festa di piazza, la stanza di Petrouchka e quella del Moro, di nuovo la festa. Ma tutto è risucchiato in Petrouchka e nella ballerina, la partner di sempre, Rihoko Sato, imprendibile apparizione femminile, dinamicità fulminante, autentica indipendenza. Petrouchka/Saburo, sull’inconfondibile urlo di Stravinskij, batte il capo contro il muro, mima, nel gesto, un suonatore di banda quando nella partitura rulla il tamburo tra i quadri, il movimento è un crescendo di fratture fisiche e interiori fino allo strappo della maschera dal volto e alla bocca spalancata nel grido. L’elaborazione musicale su Stravinskij illumina il gesto drammatico, esalta la speranza non risolta dell’amore, intreccia nella memoria figure presenti e assenti.
«BE ISOLATED, be scared (non temete di stare soli, di avere paura)» ha detto Teshigawara, riflettendo sulle giovani generazioni durante la consegna del Leone d’Oro «siate soprattutto voi stessi, lo stato più potente per creare insieme un gruppo». Un affondo sul lasciarsi andare nel movimento scoprendo il proprio sé in relazione con gli altri la cui generosa energia propositiva è emersa a pieno anche in Swing, performance site specific frutto del laboratorio di Teshigawara con i danzatori del College di quest’anno. Un incontro sulla potenzialità impreviste del movimento tra slanci e sospensioni dei fuori asse, tours, corse sospinte: un moto perpetuo sulle note iniziali, ripetute e ripetute, del Valse Triste di Sibelius che esplode infine nella sua totalità.
Si riflette così in Petrouchka come in Swing quella miracolosa oscillazione temporale tra stare in solitudine e penetrare le cose del mondo che appartiene da sempre all’arte di Teshigawara. Un perdersi nella danza che apre le porte a un meraviglioso flusso fisico di conoscenza, boundary-less.

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