CULTURA

Storie di abbandoni, fughe per disinteresse e improvvisi ritorni

GIORGIO VASTA - RAMAK FAZEL, «PALERMO. UN’AUTOBIOGRAFIA NELLA LUCE» (HUMBOLDT BOOKS)
GIACOMO GIOSSIitalia/palermo

Da sempre molto amato dalla critica italiana, Giorgio Vasta è ad oggi autore di un unico romanzo, Il tempo materiale pubblicato nel 2008. Da tempo si parla di un secondo romanzo in arrivo, ma l’impressione è che da quella forma Vasta stia fuggendo, forse anche per liberarsi proprio di quella critica così ben disposta, ma al tempo stesso opprimente come una cena di famiglia in cui gli entusiasmi si mischiano a vere e proprie incomprensioni.
Così negli ultimi anni Vasta ha assunto una forma autoriale assolutamente originale e curiosa. Una produzione letteraria ampia capace di spaziare con grazia e curiosità, ma anche forte e coesa nella sua incisione fortemente autobiografica. Così dopo Absolutely Nothing del 2016 ecco che Giorgio Vasta ritorna in compagnia del fotografo Ramak Fazel con Palermo. Un’autobiografia nella luce (pp. 140, euro 24), sempre per Humboldt Books.
L’IMPRESSIONE è che Giorgio Vasta abbia trovato in Fazel un compagno di viaggio fidato e in Humboldt una casa protetta in cui potersi esprimere. Il volume afferisce a quella serie di edizioni che fortunatamente non si possono incasellare in una forma data che sia quella del libro fotografico o appunto del romanzo o della raccolta di racconti. Un far libri contemporaneo di cui Humboldt è indubbiamente uno degli editori di riferimento in Italia e che offre allo scrittore uno spazio dentro al quale esprimere la purezza di una narrazione di montaggio raffinata e al tempo stesso profondamente letteraria.
Il lavoro di Vasta, Un’autobiografia nella luce e quello di Fazel, City of Phantoms vivono accostati, ma là dove prende avvio la serie fotografica di Fazel ecco che tracima il testo dell’autore, come una forma di didascalia a significare l’impossibilità dell’autobiografia, della storia minima di isolarsi e di spegnersi, ma anzi evidenziandosi quale luogo generativo di quell’esterno di chiasso e caos, colori, voci e odori che danno vita a Palermo.
EPPURE PER MOLTO TEMPO, dopo la sua partenza, la città siciliana è stata per Giorgio Vasta un luogo estraneo, un abbandono che sembra più un addio per reciproco disinteresse. Ma è proprio nella forma tipica della fuga che lo scrittore sembra riuscire a elaborare il luogo di partenza (chissà se sarà così anche per un eventuale ritorno al romanzo), mito di un falso movimento che si palesa nel ritorno, non tanto alle pietre quanto agli oggetti di una memoria che riprende fuoco e luce.
Un’autobiografia nella luce ricorda così le rarefatte incisioni di Gianfranco Ferroni che proprio nella luce (basti pensare al saggio a lui dedicato da Roberto Tassi, La luce della solitudine) indicò l’unico spazio possibile della memoria. La luce si palesa negli interni glabri, fatti di carte e giornali abbandonati, nei letti sfatti del giorno prima (o di anni prima) e in un silenzio che diviene musica di fondo di un’opera che parte sì dall’autobiografia e diviene mondo, ma che in particolare nel caso di Vasta, assume la forza plastica di una vera e propria urbanità.
Ovvero Palermo nella radicalità di un tessuto urbano denso e confuso, sorprendente e abbandonato in un vivido sali scendi di contrasti e conflitti che Fazel elabora con i suoi scatti sempre in equilibrio tra cronaca e arte, quasi a dimostrare la felice inattendibilità della strada, così come della memoria.
La scrittura di Giorgio Vasta ha una forza ancestrale che l’autore definisce e fa maturare anno dopo anno dando forma di volta in volta a scritti che hanno il sapore denso e sorprendente di un debutto. Un movimento che sta tra il controllo e la liberazione, un’azione di disvelamento che si traduce in una letteratura delle parole per le immagini.

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