INTERNAZIONALE

«È la rivoluzione delle donne: con il velo brucia il regime»

Quinto giorno di proteste in Iran, almeno 14 morti. Intervista al regista Fariborz Kamkari
CHIARA CRUCIATIIRAN/KURDISTAN

Avere notizie certe della sollevazione che da cinque giorni infiamma l’Iran non è semplice: la rete internet è debolissima, tagliata da Teheran. Ieri l’ultima app disattivata è stata Instagram. Di certo la protesta si sta allargando, quasi tutte le province sono ormai coinvolte. Sarebbero almeno 14 i manifestanti uccisi, centinaia i feriti, ignoto il numero degli arrestati. In Rojhilat, il Kurdistan iraniano, è stato indetto lo sciopero generale.
In prima fila ci sono le donne: bruciano i veli, tagliano i capelli, si scontrano con la polizia. A scatenare la sollevazione è stata l’uccisione, per mano della polizia morale, della 22enne curda Mahsa Amini, venerdì scorso. Alla sua famiglia un consigliere dell’Ayatollah Khamenei ha espresso le condoglianze del leader religioso che avrebbe promesso di indagare. Ma gli slogan sono chiari: «Morte al dittatore», «Donna, vita, libertà». A Sari un manifestante si è arrampicato sulla facciata del comune e ha distrutto l’immagine di Khomeini, il padre della Repubblica islamica. A intervenire ieri sarebbe stato anche Anonymous, il collettivo hacker chiamato in causa dagli iraniani sui social perché aiutasse a disattivare i siti del governo: pare lo abbia fatto, bloccando la tv di Stato e alcuni servizi governativi per qualche ora.
Abbiamo parlato con Fariborz Kamkari, regista curdo-iraniano, autore tra gli altri de I fiori di Kirkuk e Essere curdo e del romanzo Ritorno in Iran.
Cosa sta accadendo in Iran?
Non è una rivolta di quelle che ormai si verificano ogni anno: ha le caratteristiche di una rivoluzione. Per quattro motivi. Primo, per la prima volta riguarda tutto il paese e non solo una parte, che sia il Kurdistan o il sud est a maggioranza araba, come accaduto due settimane fa, proteste subito sedate. Secondo, partecipano tutte le classi sociali: in passato abbiamo assistito a proteste della piccola borghesia o della classe bassa; stavolta partecipano poveri, lavoratori, classe media. Terzo, non ci si è mobilitati per motivi economici, la gente chiede libertà. Quarto, è fuori dal controllo di ogni organizzazione interna al regime che per anni ha mostrato una doppia faccia, riformisti contro conservatori. La rivolta è contro il regime in sé, lo si capisce dalla reazione compatta di tutte le forze politiche. Bruciare il velo è bruciare la bandiera: questo regime usa il velo come rappresentazione della propria ideologia. Oggi la gente dice no alla natura stessa della Repubblica islamica.
Perché ora? La morte di Amini è stata la scintilla di un dissenso che cercava sfogo?
Il suo vero nome è Jhina. Non possiamo usare nomi curdi, che restano ufficiosi, diversi da quelli ufficiali dei documenti di identità. Jhina significa «nuova vita». E sta davvero dando una nuova vita al paese. Succede oggi perché l’Iran soffoca da tempo. Negli ultimi otto anni ci sono state rivolte cicliche, ma il regime è riuscito a scollegarle tra loro. Prendiamo il Kurdistan: lì si protesta dal 1979, mentre Khomeini era portato in trionfo i partiti curdi avevano già coniato lo slogan «Autonomia per il Kurdistan, democrazia per l’Iran». Con le rivolte curde, il regime spaventa gli iraniani dicendo che si tratta di indipendentisti. Se protestano i lavoratori, spaventa la classe media. Ma stavolta la sollevazione è l’accumulazione delle sofferenze di tutti. La situazione economica è terribile, ma lo slogan che risuona è il diritto a scegliere per sé. Per decenni, quando contestavamo l’obbligo del velo, ci rispondevano che non era il problema principale. Oggi la gente mostra che lo è: rappresenta la libertà individuale, la possibilità di scegliere. Gli iraniani non chiedono solo pane o lavoro, ma libertà. Altri dicono che l’hijab è una caratteristica della nostra cultura. Non è così: è stato imposto dalla rivoluzione islamica. Bruciando il velo, bruciano quel mito.
Che ruolo hanno le donne?
Il sistema è disegnato per marginalizzare le donne e togliere loro ogni ruolo politico, culturale, sociale. La donna deve essere moglie e madre. Le iraniane non lo hanno mai accettato e sono sempre state motore di cambiamento. Andate in Iran, vedrete che fanno qualsiasi cosa. Questa è una rivoluzione femminile: loro organizzano la piazza, vanno contro la polizia, bruciano il velo. E sono sostenute dagli uomini, è la novità. La furbizia del regime è stata creare divisioni che sono entrate anche in casa: se crei un sistema a favore degli uomini, gli uomini diventano i rappresentanti del regime anche tra le mura domestiche. Oggi però sono al fianco delle donne.
E i giovani?
Il 60% della popolazione iraniana ha meno di 30 anni, persone che non ricordano o non hanno partecipato alle grandi rivolte del 1999 e del 2009. Da allora il governo aveva disinnescato gli studenti, Ma oggi i giovani usano internet, conoscono il mondo fuori, sono più difficili da domare. E le università si sono risvegliate.
Teheran saprà mostrare elasticità?
È difficile, è costruito su questi principi. Se vengono meno, cade l’intera impalcatura della Repubblica islamica. Per questo non cambia nonostante la maggioranza degli iraniani non voglia più l’hijab o il controllo sulla libertà personale.
La soppressione della polizia morale è sul tavolo?
È stata una delle prime invenzioni di Khomeini per costruire la sua società ideale, a fronte della contrarietà della maggior parte degli iraniani all’hijab o di altri comportamenti pubblici non in linea con i principi del regime, dall’abbigliamento alla pettinatura al linguaggio. La polizia morale è un mezzo efficace per terrorizzare, soprattutto i giovani: è davanti a ogni liceo e facoltà, controlla come si ci veste, cosa si scrive sui telefoni. Ferma le auto dove ci sono uomini e donne per verificare i loro rapporti. La protesta non vuole la fine della polizia morale, ma dell’intera natura del regime.

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