CULTURA

Se il Kentucky river si riprende le sue gole

ALESSANDRO PORTELLIUSA/KENTUCKY

«The river rushes on, so effortlessly …». È Bruce Springsteen, Reason to Believe. Sulle rive si consumano piccoli e grandi drammi umani, ma il flusso (evocato nei suoni liquidi e continui di quell’«effortlessly», una parola molto cara a Bruce Springsteen) va avanti, apparentemente indifferente - ma anche con qualcosa di minaccioso; il fiume non «scorre» ma «si precipita» (rushes on). C’è violenza annidata in quella serenità.
Ha scritto recentemente Alex Gibbon, direttore di Appalshop, una storica, inimitabile cooperativa di lavoro culturale di base di Whitesburg, Letcher County, Kentucky: «Il ramo Nord del Kentucky River scorre nel centro di Whitesburg, accanto allo storico edificio dove Appalshop ha sede dal 1982. Di solito, lo sgocciolio del torrente regala un sottofondo sonoro quasi idilliaco alla vita quotidiana di Whitesburg, alle persone che lo attraversano sul ponte pedonale (costruito negli anni Trenta da scalpellini italiani; ci sono passato anche io, tante volte) o prendono il sole sulle panchine lungo la riva …».
IL KENTUCKY RIVER scende dalle gole strette degli Appalachi, fra le colline devastate e abbandonate dalle miniere a cielo aperto e dalla deforestazione selvaggia, fino alle pianure del bluegrass. Nel corso del tempo, gli esseri umani hanno pensato di controllarlo costruendo argini nei luoghi più impervi, o di trasformare il suo flusso in energia e con dighe e laghi artificiali diventati anche attrazioni turistiche. Il fiume lascia fare, tutto quell’affannarsi non gli scalfisce nemmeno la superficie – e poi, quando arriva il momento, si alza e torna a riprendersi le valli, le gole, i villaggi. Succede spesso (ancora nel 2020); ma certe volte con più furore di altre.
Nella notte fra il 27 e il 28 luglio, il livello del fiume sale di più di sette metri. Scrive ancora Alex Giibbon: «Sappiamo che l’acqua può essere un dolce, rasserenante sollievo in una giornata di lavoro. Ma è anche capace di strappare le case dalle fondamenta e trascinare via le persone nel tempo di pochi secondi». L’acqua non sale gradualmente, ma irrompe furiosa dalle gole strette e travolge tutto quello che trova sulla sua strada. Le case sono fragili, più legno che mattoni; centinaia di famiglie vivono in campi di roulotte e case mobili, che l’acqua trascina via come fuscelli (davvero «effortlessly», verrebbe da dire, ma in tutt’altro senso). A Knott County, in uno di questi agglomerati di roulotte, la corrente strappa quattro bambini, dai due agli otto anni, dalle braccia dei genitori e li trascina via. Dopo quattro giorni, a Letcher County e nelle contee limitrofe risultavano trentasette morti, migliaia di dispersi, e il conto continua a salire. Dodicimila case sono senza corrente, migliaia di persone non hanno più niente, le scuole sono sfasciate e allagate, le infrastrutture sono rase al suolo, e piove ancora.
Nel 1977, dopo un’alluvione aggravata dalle distruzioni causate dalle miniere sulle colline attorno a Cranks Creek, Harlan County, gli avvocati affermarono che il disastro era stato causato dalla pioggia, e che la pioggia era «un atto di Dio». Annie Napier, un’indomabile protagonista della sua comunità, ribatté: «Sì, forse la pioggia è un atto di Dio, ma non è stato Dio a mettere le ruspe su quelle colline e farle tutte a pezzi».
C’È UN FILM prodotto da Appalshop, intitolato An Act of Man, un atto dell’uomo, sulla catastrofe del 1972 a Buffalo Creek, West Virginia: il crollo di una fragile diga di contenimento delle acque reflue di una miniera travolge un’intera comunità uccidendo 125 persone. Adesso, Alex Gibbon scrive: «Non c’è nessun gusto ad avere ragione sulla crisi climatica e ambientale. Sì, le inondazioni sono fatti naturali, ma questa ha ricevuto un bell’aiuto dalla mano dell’uomo.
LE COMPAGNIE MINERARIE hanno sfruttato e abbandonato queste regioni, lasciando gli stagni delle acque reflue delle miniere e i residui della deforestazione selvaggia. Ora, gli stagni sono tracimati e l’acqua del fiume ha trascinato con sé il legname abbandonato, che si è abbattuto sulle case in una perfetta tempesta di tronchi e di acqua. Eravamo abituati e preparati alle inondazioni, ma non alla distruzione totale.
Shall we gather at the river… Incontriamoci al fiume, il bellissimo fiume che scende dal trono di Dio, cantava uno spiritual che ancora si ricorda da queste parti. I battesimi per immersione totale nei fiumi e nei torrenti erano una parte essenziale dell’intensa religiosità di queste terre. Ancora Springsteen: «I fedeli si radunano al fiume, il predicatore con Bibbia in mano… Portano iI bambino al fiume, lo battezzano, lo lavano nell’acqua e il fiume porta via il suo peccato…».
C’È UN RAPPORTO fra il fiume e la memoria: come il tempo, anche il fiume scorre inesorabilmente in una direzione sola e si porta il via il passato e le sue tracce. Il lavoro della memoria – gli archivi, i musei, le biblioteche – è come le dighe e gli argini che cercano di fermare le acque e riescono solo a rallentarle, a trattenerle per un momento.
Una delle immagini più dolorose degli ultimi tempi è quella dell’edificio di Appalshop semisommerso dalle acque. Nel seminterrato di quell’edificio ho visto e ascoltato un secolo di memoria: i filmati, le registrazioni, le fotografie, i dischi, la musica, il teatro di cent’anni di lotte dei minatori, le canzoni di Sara Ogan Gunning («Odio il sistema capitalistico…»), le battaglie per l’ambiente, i diritti civili, il femminismo delle montagne, la old-time music, il bluegrass, il gospel, il blues, la storia orale, le arti popolari, gli operai messicani arrivati negli ultimi anni a lavorare senza diritti nelle fabbrichette del Tennessee. Adesso l’acqua ha sommerso tutto. Gli attivisti e i volontari di Appalshop stanno cercando di salvare il salvabile, ma in questo momento si profila come un disastro culturale immane – non c’è alcuna vergogna nel pensare che, per la cultura popolare e operaia di un paese come gli Stati Uniti, non è poi tanto meno grave del rogo di Notre-Dame.
PERÒ NON FINISCE QUI. Raccontano i volontari di Appalshop: «Quando le acque sono rifluite abbiamo scoperto che l’albero di melo che avevamo piantato accanto all’archivio era ancora in piedi, con le sue giovani radici intatte. Nonostante un’inondazione senza precedenti, il nostro piccolo albero è ancora in piedi, carico di frutti e di speranza».
«Come un albero piantato sulla riva del fiume», dice uno spiritual diventato canzone di lotta nei picchetti dei minatori e nelle manifestazioni del movimento dei diritti civili e contro la guerra del Vietnam, «noi non cederemo» – we shall not be moved, non faremo un passo indietro, non ci arrenderemo. L’albero piantato sulla riva sembra un simbolo («radici») di resistenza, di stabilità, di sopravvivenza, contrapposto al flusso inarrestabile dell’acqua. Ma non dobbiamo dimenticare che è proprio dal movimento dell’acqua che gli scorre accanto che le radici traggono il nutrimento per i fiori, le foglie, i frutti, e per continuare a vivere e cambiare.

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