CULTURA

Il mondo è una classe da educare alla libertà

«Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza», per Meltemi
SILVIA NUGARAITALIA

Insegnare, apprendere: si crede che queste attività debbano svolgersi solo negli spazi dedicati di aule scolastiche e universitarie. Ma proviamo a considerare quanto la conoscenza possa arricchire ogni giorno la nostra vita quotidiana o quanto i discorsi e i gesti che circolano nei media condizionano i nostri modi di esprimerci e di pensare e ci renderemo conto che, come scrive la compianta bell hooks, «il mondo è una classe».
A sua volta, ogni classe è metafora del mondo, suscettibile di riprodurre le dinamiche di potere dominanti o, auspicabilmente, di trasformarle. Ogni sforzo per rendere la società più giusta e democratica deve quindi sganciarsi da una logica aziendale che subordina l’istruzione all’ottenimento di un diploma in vista di un impiego. Si dovrebbe studiare ovunque e sempre per quanto scuola e università restino i luoghi principali dove la speranza può ispirare e sostenere l’impegno per il cambiamento anche nei momenti in cui ogni sforzo appare vano. «Per noi insegnanti, la classe è un luogo di speranza» si legge in Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza di bell hooks (pp. 238, euro 20).
Si tratta del secondo volume di una trilogia aperta da Insegnare a trasgredire e che prosegue con Insegnare il pensiero critico, di prossima uscita, sempre editi da Meltemi nella collana «Culture radicali» e tradotti da feminoska. Questo percorso di riflessione su pedagogia, scuola e comunità educanti progettato dal Gruppo di Ricerca Ippolita, permette di far risuonare il pensiero di bell hooks nell’oggi e nel contesto italiano avvalendosi di introduzioni come quella di Rahma Nur, che apre questo secondo volume con pagine sul rapporto tra scuola e democrazia che fanno tesoro della sua esperienza pluridecennale di insegnante «nera e con disabilità» nelle scuole elementari italiane.
DISIMPARARE IL RAZZISMO e il sessismo, apprendere per guarire, educazione come servizio, costruire comunità, queste sono alcune delle parole chiave nel pensiero politico-pedagogico di bell hooks, intellettuale e insegnante femminista critica verso ogni forma di dominio, vicina a Paulo Freire, all’educatore Parker Palmer ma anche al monaco buddista vietnamita Thich Nhat Hanh con cui condivideva l’idea che «vero dialogo» è solo quello in cui «entrambe le parti sono disposte a cambiare». Si tende a fraintendere la nozione di comunità ma bell hooks, con la sua scrittura nitida e accessibile non lascia margini d’incertezza: «Troppo spesso pensiamo che comunità significhi stare con persone uguali a noi, persone con le quali condividiamo classe, razza, etnia, posizione sociale e caratteristiche simili. Siamo tutti capaci di evocare vaghe idee di comunità e compassione, eppure quanti di noi sono andati alla ricerca compassionevole dell’altro a noi vicino per portarlo qui oggi, in modo tale che, guardandoci intorno, non ci scopriamo circondati di un solo tipo di classe e di persone tutte uguali a noi, dando vita a un certo tipo di esclusività?». Quante e quanti di noi pur dichiarandosi aperte e aperti alle differenze possono dire di frequentare persone diverse da sé per censo, razza e orientamento sessuale?
FARE COMUNITÀ è l’opposto del «comunitarismo», significa innescare un movimento di avvicinamento reciproco che permetta di «superare la paura, scoprire cosa ci unisce e saper apprezzare le differenze». Tutto ciò non è però possibile senza assumersi il rischio di conflitto che comporta ogni incontro con l’alterità: «Confidare nella nostra capacità di far fronte a situazioni in cui sorgono conflitti razziali [ma anche sessuali o di classe] è molto più fruttuoso che insistere sulla sicurezza come la migliore o l’unica base per creare un legame».
A costellare i sedici saggi di questa raccolta, ricchi di una teoria incarnata in cui sessismo, razzismo, classismo e omofobia non sono concetti astratti ma marchi impressi sulla pelle e nell’animo delle persone, si trovano storie di abuso, di impotenza, di rabbia, di autosabotaggio ma anche di perdono, di riconciliazione, di conflitti mai evitati bensì affrontati con la consapevolezza che solo esplorare fino in fondo il cuore oscuro del danno possa permettere di elaborare pratiche di inclusione e saperi emancipatori.
CHIUNQUE ABBIA SCRITTO delle dinamiche emotive che investono il nesso potere-sapere, da Annie Ernaux a Didier Eribon a Kaoutar Harchi, sottolinea quanto la vergogna covi nell’animo di chi mediante l’educazione accede a un mondo sociale diverso da quello d’origine. Nel capitolo Superare la vergogna, anche bell hooks indaga questo sentimento andando al di là delle storie eccezionali ed esemplari di chi trova in sé le risorse per elaborarlo. Hooks invita a considerare quanto la paura del fallimento comprometta su larga scala le capacità di apprendimento di chi appartiene a popolazioni storicamente oppresse favorendone la rabbia, l’apatia, l’autoesclusione.
Vecchie narrazioni razziste e sessiste della storia, dinamiche esasperate di competizione, forme di valutazione punitive improntate all’intimidazione e all’umiliazione sono «strategie della vergogna» che riattivano traumi del passato, reprimono ogni speranza, distruggono la possibilità di costruire comunità e «giocano nel mantenere la subordinazione» razziale e non solo.
SPESSO I DOCENTI abusanti non sono una sparuta minoranza ma zelanti interpreti di logiche istituzionali dominanti ricalcate sul modello dell’azienda, dove la gerarchia si afferma con la brutalità e la collaborazione è vista con sospetto. Anche in Italia vediamo come la logica aziendale diffonde nell’ambito educativo e, più in generale della cultura, l’inglese manageriale di bandi e piani strategici ossessionati dai saperi tecnici e da una continuità con il mondo del lavoro che valorizza subordinazione e obbedienza a discapito dello studio rigoroso e del pensiero critico. Per bell hooks, cura e servizio sono i due principi pratici che interferiscono con la gestione aziendale della classe e che trasmettono a chi studia l’idea fondamentale che lo scopo dell’istruzione non è dominarli o prepararli a diventare dominatori, ma piuttosto creare le condizioni per la libertà.
Una libertà che non riguarda solo le dinamiche materiali e sociali ma che per l’autrice coinvolge anche l’integrità psicologica e spirituale delle persone. bell hooks spiazza e sollecita riflessioni scomode, invita a non trincerarsi dietro agli antagonismi perpetui che confortano l’identità ma paralizzano il mutamento.
LE SUE PAGINE sull’erotizzazione del potere, sulla disponibilità al dialogo con le parti avverse, sul compito dei gruppi subordinati di insegnare ai gruppi dominanti come cambiare esprimono un afflato di onestà innanzitutto con se stessa. La pedagogia della speranza di bell hooks considera ogni persona un insieme inscindibile di mente e corpo, di ragione e desiderio, di potere erotico e di senso del sacro.
La parte finale del volume raccoglie saggi come Spiritualità nell’educazione o Questioni spirituali in classe che, distinguendo tra spiritualità e religiosità, invitano a prendere in considerazione il senso di disconnessione che spesso attraversa una popolazione studentesca sempre più eterogenea e diffidente verso la scuola. Citando la guaritrice Rachel Naomi Remen, bell hooks identifica l’educazione con un’azione che non può indurre le persone ad avere successo nella società così com’è ma può altresì «guarire questo mondo, per trasformarlo in ciò che potrebbe diventare». Questa è la pedagogia della speranza, il sogno di un’educazione come pratica della libertà.

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