INTERNAZIONALE

Prove di secondo fronte, si spara in Nagorno Karabakh

L’AZERBAIJAN ATTACCA L’ARMENIA PER LA REGIONE CONTESA
SABATO ANGIERIARMENIA/AZERBAIJAN/NAGORNO KARABAKH

Non c’è pace nel Caucaso. Secondo Nikol Pashinyan, primo ministro armeno, ieri mattina il bilancio delle vittime tra le forze armate armene era già di 49 vittime. Il premier ha spiegato, durante una sessione straordinaria dell’Assemblea nazionale che nella notte tra lunedì e martedì le truppe di Baku hanno lanciato un’offensiva su larga scala in direzione delle regioni di Goris, Sotk e Jermuk e di altri villaggi minori situati lungo il confine delle provincie orientali del Paese.
Gli ultimi giorni erano stati segnati dalle accuse costanti degli azeri che biasimavano Yerevan per aver sparato sulle proprie postazioni militari nei pressi del confine e, nonostante le smentite armene, la tensione tra i due Paesi è cresciuta esponenzialmente. Fino a lunedì notte quando, poco dopo la mezzanotte, dei droni azeri (gli stessi usati dall’Ucraina contro la Russia e prodotti in Turchia) hanno fatto incursione nello spazio aereo armeno coperti dagli spari dell’artiglieria pesante. Diverse zone residenziali sono state colpite e, secondo il ministero della Difesa armeno, anche alcune infrastrutture civili.
La situazione è rimasta molto tesa fino alle 9 di martedì, quando è stata raggiunta una tregua grazie alla mediazione russa. Il parlamentare russo Grigoriy Karasin, a capo del Comitato di difesa del consiglio della Federazione, ha dichiarato che il «cessate il fuoco» è stato possibile «grazie agli sforzi della Russia, anche in seguito alla conversazione tra il presidente Vladimir Putin e il primo ministro dell'Armenia Nikol Pashinyan e agli sforzi del ministero degli affari esteri russo».
L’ATTACCO AZERO giunge dopo mesi di episodi bellici, circoscritti però alla zona contesa del Nagorno-Karabakh. Tale regione, a maggioranza etnica armena e ospite di alcune degli edifici di culto più antichi del Caucaso, come la chiesa di Shushi che è da sempre un simbolo dell’identità religiosa e culturale armena, è da anni al centro delle contese tra Yereven e Baku. Assegnata al controllo azero durante l’Urss, nel 1991 decide di dichiararsi indipendente e di recuperare l’antico nome armeno di «Repubblica dell’Artsakh». L’Azerbaijan non riconosce il nuovo stato e l’Armenia interviene in sua difesa, ne scaturisce una guerra sanguinosa che dura fino al 1994 e si conclude con la vittoria armena e l’autonomia di fatto dell’Artsakh. Fino all’autunno del 2020, quando un’improvvisa offensiva delle truppe azere con il supporto logistico e pratico turco riconquista due terzi della regione lasciando solo Stepanakert (che ne era anche la capitale) e pochi territori limitrofi sotto il controllo stabile del governo filo-armeno.
L’UNICO COLLEGAMENTO rimasto tra l’ex-capitale separatista e il territorio armeno era, fino allo scorso luglio, il cosiddetto «Corridoio di Lachin»: una lingua di terra di cinque chilometri che prende il nome della città di confine da cui partiva l’unica strada rimasta agli armeni in Artsakh. A presidiarla erano intervenuti i soldati del contingente di pace russo inviati a garantire il rispetto dei trattati post-bellici. Mosca, infatti, è legata all’Armenia dal «Trattato di amicizia cooperazione e mutua assistenza tra Armenia e Russia» che prevede, tra le altre cose, il soccorso militare in caso di minaccia armata per uno dei due stati.
Ma nel 2020 il teatro degli scontri era l’Artsakh, tecnicamente in territorio azero anche se amministrato de facto dai filo-armeni. Ora la situazione è molto diversa. Sia perché gli azeri hanno colpito obiettivi all’interno del territorio sovrano dell’Armenia, sia per il fatto che Mosca oggi è impegnata nel conflitto in Ucraina e da mesi il contingente di pace in Artsakh è ridotto a meno di un battaglione. Impossibile non pensare che Ilham Aliyev, presidente dell'Azerbaijan, non abbia tenuto conto di questa contingenza favorevole.
ANCHE PERCHÉ già due mesi fa gli azeri avevano costretto con la forza armeni e russi a lasciare il corridoio di Lachin e a costruire una strada alternativa a 3 km di distanza. Era intervenuto direttamente il ministro degli esteri del Cremlino, Sergei Lavrov, che sembrava essere riuscito a bloccare l’escalation. Fino alla scorsa notte quando Baku ha deciso di alzare decisamente il livello dello scontro e oltrepassare i confini armeni.
Il presidente francese Emmanuel Macron, il segretario di stato americano Antony Blinken e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel si sono espressi subito a favore di una risoluzione diplomatica della crisi. Ciò che stupisce è che l’interlocutore privilegiato in questo contesto è lo stesso Vladimir Putin che ha invaso l’Ucraina lo scorso 24 febbraio. Il leader del Cremlino ha definito inaccettabili le azioni della parte azera e si è impegnato a «vigilare attentamente» sui prossimi sviluppi in modo da tutelare l’Armenia.
INOLTRE, bisogna tenere conto del ruolo della Turchia, negli ultimi anni mai così vicina alla Russia. Fino al 2020 Ankara è stata un alleato fondamentale di Baku e ha permesso all’esercito azero di dotarsi di armi moderne e tattiche aggiornate. Ora però, il territorio di Yerevan è al centro di una complessa rimodulazione del potere nella zona caucasica e in Medio Oriente e non può essere un caso se proprio quest’anno, con la guerra in Ucraina al suo culmine, Ankara abbia avviato un tavolo per aprire i confini con Yerevan e normalizzare i rapporti diplomatici.

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