CULTURA

Conversazioni poetiche sull’acqua

FRANCESCA MAFFIOLIGB/LONDRA

«Non possiamo parlare dell’acqua senza parlare di noi stessi», ha scritto alcuni mesi fa Antonella Anedda in un articolo apparso su Antinomie, riportando le parole di Roni Horn, l’artista amica delle acque tutte. Raccontando le acque, i fiumi, torrenti e rii parliamo di noi umani, della flora e la fauna che li abita e li attraversa e dell’elemento acquatico che ci abita in una percentuale incredibile a credersi. Osservando l’apparato radicale delle piante ma anche la loro struttura ramificata che vive in superficie non possiamo non pensare all’apparato cardiocircolatorio dei viventi, ma anche alla configurazione capillare della distribuzione delle acque che percorrono la superficie terrestre.
Grazie alla veduta a volo d’uccello il profilo idrografico terreste somiglia a quello dei corpi viventi confermando, se ce ne fosse ancora bisogno, che le forme della vita si somigliano tutte e sono in relazione simbiotica tra loro. D’altronde queste rassomiglianze si rivelano già agli occhi bambini nell’albo Dentro me (Topipittori, 2007), scritto da Alex Cousseau e disegnato da Kitty Crowter, rappresentante corpi umani in trasparenza percorsi da apparati venosi che somigliano ad arborescenze, e corpi vegetali attraversati da sistemi capillari che sembrano fiumi.
L’anno scorso Camille de Toledo ha pubblicato in Francia un’opera intitolata Le fleuve qui voulait écrire. Les auditions du parlament de Loire (Les Liens qui libérent, 2021), riferendosi in particolare alla Loira – il più esteso e vivant tra i fiumi francesi. Il testo è pensato in risposta alla constatazione che esistono delle entità terrestri che, prive di uno statuto giuridico, dovrebbero essere rappresentate, anche giuridicamente e per le quali si impone la necessità di inventare una grammatica dei diritti.
NELL’OPERA dello scrittore francese zoè e bìos, parole che in greco sono usate per designare la vita, per una volta concorrono insieme a definire un sistema di rappresentanza interspecifica in cui tutte le entità viventi domandano considerazione: bìos, che definisce l’essere umano come persona che vive nella società si muove in alleanza a zoè, che abbraccia l’essere umano, le piante e gli animali, fiumi, laghi, montagne e il vivente tutto. Il testo, un’opera collettiva, contempla le riflessioni di Catherine Larrère, Bruno Latour, Virginie Serna e altri, i quali cercano di andare oltre quella classificazione che determina la gerarchizzazione dei diritti tra le specie e le entità terrestri, in cui il soggetto umano neutro traccia un confine per distinguere ciò che è umano da ciò che è altro, animale, vegetale, diversamente umano.
Mireille Gansel, in un testo intitolato La voix du fleuve (Editions de la coopérative, 2020), racconta di come è venuta a conoscenza che il fiume Whanganui in Nuova Zelanda abbia ottenuto lo status di persona giuridica e di come lei decise allora di recarsi presso i Maori della regione, che chiamano il fiume Te Awa Tupuna, cioè «l’acqua-antenata-l’acqua che ha potere sacro». Attraverso la tessitura di brevi testi nati dai ricordi di quel viaggio, Gansel reitera l’Appello d’alleanza dei Popoli Autoctoni per cui: «È fondamentale trasformare il nostro approccio alla natura considerandola non come una proprietà ma come un soggetto di diritti, garante della vita».
ED È PROPRIO IN ORDINE a questa trasformazione, desiderosa di ascoltare la voce delle acque, che il poeta francese di origine haitiana Ludovic Janvier ha pubblicato Des rivières plein la voix: promenade (Gallimard, 2004). Le poesie di questa corposa raccolta si ispirano infatti alle acque dei fiumi francesi e si rivolgono alle camminatrici e ai camminatori – chi sceglie di attraversare quegli spazi liminali e debordare, come le acque dei fiumi che in piena vanno oltre i loro letti. E di vivere nello stato d’instabilità danzante di quel passo che ci eleva dalla terra al cielo.
Volgendo alle acque che parlano di noi e noi di loro, torniamo a Roni Horn. E ai suoi ritratti d’acqua del fiume Tamigi. Parlando della mostra che la Fondazione Beyeler di Basilea aveva dedicato nel 2016 all’artista statunitense, in un articolo del manifesto veniva citato il rapporto tra le opere fotografiche di Horn e la parola – in particolare quella poetica.
Pensando in particolare a Still Water (The River Thames, For Example) del 1999, si celebrava l’omaggio di Horn al mistero dell’acqua e allo scorrere del Tamigi. La sua superficie mobile diventava allora una sorta di taccuino poetico: «Qui i ricordi s’impuntano fra la schiuma, le storie si mescolano e sono narrate senza sosta. Nell’acqua s’intravede Shakespeare, Emily Dickinson, William Faulkner, scivolano i pensieri guardando in giù dagli argini, sporgendosi dal parapetto, just watch. E poi, scorre il ciclo emotivo dell’acqua: la intuiamo preoccupata, a disagio e insieme calma, oppure folle e languida».
L’OPERA DI RONI HORN è emozionale e dialogica, come lo sono le acque del Tamigi che grazie a come lei sa vederle, si mettono in relazione alle artiste e agli artisti che vivono nello spazio di fondo delle sue tavole fotografiche. Sono infatti 832 le note a forma d’appunti che si staccano dall’acqua come frammenti cognitivi della memoria di Horn. Cercando di indicizzare la superficie mutevole dell’acqua del fiume inglese l’artista compone una costellazione di parole che lega il fiume all’umano, nella forma delle sue tracce artistiche: insieme ai resoconti dei suicidi, rapporti di polizia e articoli di giornale troviamo i versi dei poeti già citati insieme Poe, Dickens, Flannery O’Connor e altri. E con loro brani di canzoni di Neil Young o Gershwin, ma anche riferimenti cinematografici a Antonioni e Fassbinder. I colori del Tamigi ritratto da Roni Horn sono versatili, ma sempre tendenti all’oscurità di quell’acqua densa che li risucchia invece di rifletterli. La poca luce che il Tamigi riflette è quasi sempre indiretta, a riprova della luminosità limitata propria dell’Europa del Nord ma anche per il potere assorbente delle acque limacciose del Tamigi, che in termini di poca limpidezza somiglia così tanto alla Senna, nel cui torbido Ungaretti si rimescolava.
L’ACQUA EMERGERÀ ANCORA, nella sua cangianza, nel dialogo che Roni Horn intrattiene con Hélène Cixous dando vita a Rings of Lispector (2006, Steidl Verlag) che ha visto le traduzioni di Cixous di Agua Viva di Clarice Lispector (Adelphi, 2017) farsi forma nei cerchi acquatici di Horn. Oscillanti e mobili come i cerchi disegnati dai sassolini caduti nell’acqua sono i dialoghi che Roni Horn imbastisce con Anne Carson, ancora Hélène Cixous, Louise Bourgeois e John Waters in WonderWater. Alice Offshore (Steidl Verlag, 2004). In quattro testi che mimano i colori delle acque solo apparentemente ferme di un marais, la parola poetica di Carson e Cixous si interseca a quella del regista John Waters e alla maestria di Louise Bourgeois.
Le quattro opere sono distinte ma insieme, come foci a delta di un unico fiume che posizionandosi a ventaglio sfocia in più rami e tocca da diverse angolazioni l’acqua salata del mare. Rimescolando le acque dolci, stagnanti e non frettolose, i quattro volumi di Wonderwater raccontano l’acqua delle meraviglie, l’acqua fertile e brulicante di vita delle paludi e degli acquitrini. Ricordano, nei colori scelti per le copertine, i toni non saturi delle memorie diseppellite che la scrittura poetica sa rivelare. Si avvalgono dell’infiltrazione e della percolazione, e grazie ai fenomeni osmotici più impercettibili, bagnano e irrigano – come fiumi lenti che si dirigono al mare – quelle terre e quelle vite che scelgono di restare porose.

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