CULTURA

Quel passato rimosso, fascista e imperiale che interroga il Paese

FLAVIANO DE LUCAITALIA/NAPOLI

Ai lati dell’arco di Castelnuovo, la reggia angioina, due ascari in abiti tradizionali - lunghi mantelli neri e sciarpa bianca intorno al viso, copricapo con lo stemma tricolore - sembrano malinconiche sentinelle, una esotica curiosità per invitare i passanti a entrare nel maniero napoletano. La gigantografia in bianco e nero del 1934 apre la mostra Il Cono d’Ombra. Narrative decoloniali d’Oltremare, al Maschio Angioino fino al 25 agosto, a ingresso gratuito. Una citazione obbligata per questa contro-narrazione della politica imperialista fascista, un dialogo tra opere storiche del periodo coloniale con i lavori di dodici artisti contemporanei appartenenti alla diaspora africana allestita in due spazi del castello: Antisala dei Baroni nell’ala nord, al primo piano e Sala dell’Armeria, al piano terra. Gli stessi spazi che furono parte della «Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale» tenutasi proprio a Napoli, nel Maschio Angioino, dall’ottobre 1934 al gennaio 1935. Una mossa propagandistica del regime con otto artisti italiani incaricati di ritrarre la vita delle colonie e un villaggio indigeno allestito nel fossato di Castel Nuovo.
NAPOLI, IN QUEL PERIODO, era pronta a diventare il principale dei porti coloniali, la sede ideale per una proiezione di conquista verso il sud del Mediterraneo, data la presenza in città di una delle associazioni più antiche del nazionalismo colonialista come la Società Africana d’Italia e l’istituto Orientale. Allo stesso tempo, erano gli anni del passaggio dal carattere economico-commerciale del colonialismo italiano della fase liberista a quello propagandistico-consensuale del tempo fascista. Agire nelle stesse sale, con allestimenti moderni, vuol dire ripensare quell’esperienza storica con la sua lunga scia di stereotipi, paternalismo, discriminazione razziale (dai «buu» degli stadi fino all’assassinio a mani nude di Alika Ogorchukwu), provando a illuminare quel cono d’ombra della civiltà, quel nostro passato rimosso, quella violenza cieca e indiscriminata con occupazioni e stragi di vittime civili e quello sfruttamento bieco delle terre d’oltremare.
DEDICATA A LIDIA CURTI (1932 - 2021), co-fondatrice del Centro Studi Postcoloniali e di Genere di Napoli, l’esposizione, progettata da Andrea Aragosa per Black Tarantella e curata da Marco Scotini, direttore artistico di Fm Centro per l’Arte Contemporanea di Milano, s’interroga sulla percezione dell’altro, tra l’innocenza bianca e la ribellione nera, un problema d’urgente attualità per i processi migratori verso l’Europa e la necessaria convivenza tra culture.
Da un lato una grande impalcatura a tubi innocenti fa da dispositivo precario a due grandi disegni del tunisino Nidhal Chamekh dedicati al tema dell’esilio e alla memoria del poeta palestinese Mahmoud Darwish, ritratto tra segni e scritte ; dall’altro lato il quadro orientaleggiante «Mercato indigeno ad Asmara» degli anni ’33 - ’35, di Maurizio Rava, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma, poi Governatore della Somalia, irriducibile fautore del colonialismo italiano. E le statuette di Mario Montemurro, i lavori di Alberto Chiancone e Carlo Celano, degli anni Trenta. Mitraglieri e bambini profughi nell’emulsioni e serigrafie su carta dell’angolano Delio Jasse, intitolate «Mediterraneo 2019», mentre «Plumber», della marocchina Yto Barrada, una grande sequenza di tubi idraulici, rimanda all’arrivo dell’acqua corrente nelle case o alla doccia, prima incombenza una volta sbarcati nei campi di contenimento nei territori europei.
NELLA MOSTRA è stato recuperato il trono in stile occidentale del Negus Hailè Selassiè, legno con oro zecchino, rivestito di seta di San Leucio e abbandonato nei magazzini del Palazzo Reale, dopo la Triennale del 1940. Ras Tafari Makonnen appare anche in un video proiettato su uno scudo e una spada, segni dell’insensata guerra del 1936, circondato dai paramenti di iuta del ghanese Ibrahim Mahma: sacchi di caffè, cacao e altre derrate, i prodotti rapinati.
Poi le cartoline originali degli anni Trenta con i busti di nudi femminili di danzatrici o ragazze che ammiccano la pornografia e le opere del giovane etiope Jermay Michael Gabriel che riflettono sul passato coloniale italiano tra memoria e rimozione, reso da vecchi manifesti d’archivio razzisti presentati con dettagli dorati e bordi, manipolazioni furiose. E la fotografia provocatoria dell’angolano Kiluanji Kia Henda, ispirata alla pittura tradizionale - con un forte rimando all’Olympia di Manet, un uomo sdraiato nudo su un divano con una maschera da moro veneziano, su una bianca scogliera. Nella seconda sala sono stati raccolti - in archivi privati e istituzioni pubbliche - molti documenti, pubblicazioni, foto (c’è anche Marinetti con Bovio e altri poeti e scrittori napoletani in un’immagine di gruppo dietro un gerarca in divisa militare con pugnale alla cintola, forse ispiratore dei Fascisti su Marte di Guzzanti) francobolli, libri, riviste e fotografie dell’archivio Troncone, tutti ben organizzati in teche e quadretti, con l’intento di riprodurre il clima dell’epoca.
«OGNI NUOVA SCOPERTA che abbiamo fatto, l’abbiamo subito condivisa con gli artisti che hanno pensato ad opere che potessero creare un gap o un contrasto. Per questo la mostra risulta molto coesa e con una narrativa chiara da seguire», afferma il curatore, Marco Scotini, spiegando che l’esposizione si presenta come «un punto di partenza per rileggere quel cono d’ombra in cui si è rinchiuso il colonialismo italiano, un capitolo che ha bisogno di essere riportato in luce attraverso nuove letture, comprensioni e smascheramenti in modo tale che la storia non si ripeta».

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