VISIONI

Le Filippine corrotte di Lav Diaz teatro di una sfida noir a due

«WHEN THE WAVES ARE GONE»
CRISTINA PICCINOITALIA/VENEZIA

Ogni film di Lav Diaz è un magnifico esempio di cinema politico, nel senso più alto, cioè come invenzione formale capace di confrontarsi con la sua realtà e con il mondo a cui appartiene disvelandone i meccanismi, i conflitti, i paradossi dentro le immagini che narrano quasi sempre altre storie e, in questo modo, allenano lo sguardo dello spettatore alla libertà - sempre più difficile a fronte dei prodotti pre-confezionati divenuti dominanti. When the Waves are Gone (Quando non ci sono più onde), presentato fuori concorso e tra le visioni più forti del festival - non si capisce perché non in gara ma certo la vittoria del Leone per The Woman Who Left provocò molto disorientamento - è un noir esistenziale nelle Filippine di oggi governate dal presidente Duterte e dal suo populismo accattivante che gli ha garantito l'appoggio generalizzato del Paese al punto da far passare come «normali» la violenza della polizia, le migliaia di omicidi e esecuzioni compiuti in modo illegale con la scusa di combattere i cartelli della droga.
IL PROTAGONISTA è un poliziotto, uno degli investigatori migliori delle Filippine che non riesce e non vuole distogliere lo sguardo: dall'interno è testimone di quanto accade, dei delitti, della brutalità di chi dovrebbe garantire la legge e il suo rispetto. E il suo disagio cresce quando si rende conto che pure lui è contaminato da questa violenza, se la porta dentro. I sensi di colpa esplodono nella malattia della pelle, una psoriasi grave che lo consuma, che diviene un virus allargandosi alla realtà che lo circonda. La narrazione di Diaz si appropria del genere che porta dal noir, alla sfida quasi da western rarefatto tra due avversari, il protagonista e il suo vecchio maestro; respira in momenti di fuga, è fatta di gesti, segue una danza improvvisata, accompagna una passeggiata piena di dolcezza sulla spiaggia. E nel bianco e nero restituisce necessità e ferocia di una psicosi che è quella del potere e che ha invaso anche i suoi cittadini, coloro che ne sono parte.
Il rivale di Hermes Pauparan si chiama Primo Macabantay, è appena uscito di galera liberato dai potenti che hanno bisogno di lui per ammazzare qualcuno divenuto scomodo. È convinto di essere una sorta di redentore dell'umanità perduta, battezza le persone, cerca di farlo anche con la giovane prostituta che porta in camera fino a affogarla. Ama ballare e lo fa da solo, senza musica, seguendo un ritmo inquietante che non sentiamo e che è per lui come un rito con cui liberarsi dalle convenzioni e agire. Quando qualcuno dell'hotel gli fa notare che disturba i clienti al piano di sotto, scende per schiaffeggiarli. Balla anche con le ragazze che si porta in stanza a pagamento, stordite dal profumo con cui occulta l'odore del cadavere della prima imbalsamato e chiuso nell'armadio.
IL MOVIMENTO dei due uomini attraversa le Filippine dell'immaginario di Lav Diaz che sono un luogo astratto, un teatro in cui la geografia di corruzione, di una economia della sopraffazione, di un massacro quotidiano divenuto abitudine si affermano nelle azioni dei personaggi, tra i loro stati d'animo e le battaglie che devono affrontare. Diaz lavora per costruire un immaginario riconoscibile, critico, capace di restituire le tensioni del mondo. Quegli scorci di città segnati dal crimine e dallo sfruttamento, di una campagna affogata di miseria affermano una storia che ha una radice lontana e un presente divenuto insostenibile.
Chi sono le persone ammazzate ogni giorno che un cartello indica come spacciatori? Poveri, poverissimi, gente di cui a nessuno importa, che il sistema sociale ha reso invisibili. La stampa è messa a tacere, la polizia è complice, chi osa intervenire rischia la vita – e spesso finisce con lo stesso cartello e pallottole nel corpo. Sono le Filippine di oggi, ed è come dice il regista «un'intensificazione del male umano che è sempre esistito». Nella precisione del suo sguardo questo pensiero della contemporaneità si manifesta con forza, impone le sue domande e la sua vertigine. Parla di noi, delle guerre, dei ricatti quotidiani. Le sue Filippine sono universali, il suo cinema ogni volta un magnifico gesto di resistenza.
C.PI.

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