VISIONI

«Saint Omer», il vuoto dell’indicibile nel gesto estremo di una madre

Lo sguardo documentario, il mito come appiglio, l’inaccettabilità sociale e la permanenza di una ferita
CRISTINA PICCINOITALIA/VENEZIA

All'origine di Saint Omer c'è un fatto di cronaca accaduto in Francia, una giovane donna senegalese che ha abbandonato tra le onde, a Berck-sur-Mer, il figlioletto di quindici mesi. All'inizio gli investigatori avevano pensato che fosse un piccolo migrante annegato in mare ma guardando le immagini nelle telecamere di sorveglianza hanno scoperto cosa era davvero accaduto. La ragazza era una studentessa, i media avevano sottolineato continuamente nel corso del processo la sua intelligenza, quanto fosse brillante, la raffinatezza del suo linguaggio eppure per «spiegare» il proprio gesto la donna aveva fatto ricorso alla stregoneria: una maledizione lanciata dai parenti, qualcosa di sovrannaturale, al di là della sua volontà.
IL FILM di Alice Diop, regista di grande talento nel cinema francese contemporaneo qui al suo esordio in una «finzione» che non accantona la cifra documentaria - utilizzando anche materiali dal suo precedente e molto bello Nous - non è una ricostruzione «basata su una storia vera»; la scelta di Diop è piuttosto di investigare un gesto che non si può nominare, quale appunto il matricidio, che si indica ricorrendo al mito e però è talmente inaccettabile nella narrazione dell'umano da avere bisogno per parlarne di un «alibi» in cui dissimularlo: la follia, la manipolazione, persino la stregoneria. Nella figura di Fabienne Kabou - così si chiama la donna - se ne sovrappongono infinite altre, quelle che la cronaca ci restituisce ogni giorno con la loro evidenza e insieme con quel terribile mistero: come può accadere? Cosa spinge a uccidere il proprio figlio? Quale disperazione, quale dolore? È su questo bordo che Diop costruisce Saint Omer - una delle punte alte del concorso - provando attraverso una regia essenziale, che utilizza suggestioni e mai indicazioni nette a aprire più piste con cui interrogare la comunità sociale, gli uomini, la famiglia. E nella scelta di una linea femminile - madre e figlia - concentra il senso in un «maternale» indissolubile di conflitti e fragilità, i cui segni, le «chimere» le chiama la scienza, rimangono nell'una e nell'altra continuando la trasmissione nel tempo.
Teatro del film è un'aula di tribunale, in cui i personaggi vengono filmati frontalmente: la giudice è una donna (Valérie Dréville) come l'avvocato che difende l'imputata, l'accusatore è un uomo, geometrie non casuali. Al banco siede Laurence Couly (la splendida attrice Guslagie Malanda), giovane, bella, distaccata, il linguaggio che utilizza con puntuale precisione è il vetro dietro al quale si nasconde: chi è davvero Laurence col suo golfino anni cinquanta e i capelli scurissimi raccolti dietro alla nuca? Cosa porta in sé oltre a quanto dicono gli atti dell'inchiesta, il compagno padre di sua figlia, lei stessa? Arrivata dal Senegal a Parigi, ha una famiglia che si intuisce benestante e che le paga gli studi di diritto; lei vorrebbe iscriversi a filosofia e il padre le taglia i fondi. Conosce un uomo francese più vecchio, va a vivere con lui che è sposato, separato e ha una figlia della sua età. Scopre di essere incinta e lo nega finché non è più possibile ed è troppo tardi per abortire, partorisce in casa, non esce per mesi, non registrerà mai la figlioletta.
ANCHE LUI, del resto, che si dichiara padre amorevole non se ne è mai occupato e non ha fatto menzione della piccola nemmeno alla ex e alla figlia: «Questione di delicatezza» si giustifica davanti alla giudice. La prima negazione riguarda dunque la bambina che non esiste per la collettività. La stessa invisibilità che avvolge sua madre, o almeno la percezione che la donna ha di sé, a cui risponde con una sequela di menzogne, e una definizione di sé stessa che non è reale e forse non corrisponde neppure ai suoi desideri. Ma il suo atto l'ha a portata all'improvviso alla luce, è sulle prime pagine dei giornali - «Tutti parlano di lei» dice la madre - e con lei ha rivelato al mondo, con forza tragica l'esistenza della figlia.
A seguire il processo c'è Rama (Kaiije Kagame) una scrittrice e studiosa che lavora sullo spazio delle donne nella Storia. Una delle prime sequenze la mostra mentre a lezione proietta le immagini d'archivio delle donne francesi rasate pubblicamente perché accusate di relazioni coi nazisti, «accompagnate» dalla voce di Marguerite Duras. Ha un progetto su Medea e per questo decide di seguire il processo a Saint Omer, nella regione di Calais, periferia della Francia depressa e arrabbiata che vota Marine Le Pen. Rama ha una relazione difficile con la propria madre, nel pranzo famigliare è scostante, e non dice alla famiglia che è incinta, la ferita di quel conflitto è ancora là. Quella storia la ossessiona, accende le sue paure; e se fosse come quella ragazza, se compisse lo stesso gesto?
SI PUÒ OBIETTARE che la maternità dovrebbe essere sociale, che ha bisogno di essere appresa - la ragazza dice di avere studiato come partorire su internet - che c'è una responsabilità dell'uomo e una sua partecipazione. Tutto questo viene dispiegato nella parte iniziale ma pian piano Diop sposta il suo punto di vista, quasi a elidere ciò che permette di racchiudere in una spiegazione «codificata» quanto è accaduto. È interrogarsi - e interrogare lo spettatore - che le interessa, su questo fonda la tensione che porta il personaggio di Rama a riflettersi nell'altra mettendo in gioco così anche se stessa. Le immagini della memoria di Rama - che sono quelle dei filmati famigliari di Diop ragazzina utilizzati in Nous - allargano il punto di vista, lasciandolo oscillare tra le descrizioni degli atti e quei silenzi ellittici dell'irrequietezza e dell'ambiguità. Saint Omer non è un film su un matricidio: è la ricerca di una parola in cui potersi riconoscere, di un racconto e di un'immagine che sfuggono a quelli del pregiudizio, e provano a illuminare vertiginosamente un vuoto e un sentimento al di là di ogni comprensione.

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