CULTURA

Nella landa precaria di emozioni dirompenti

«La distruzione dell’amore» di Anna Segre per Interno Poesia
SILVIA ROSAITALIA

Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è quanto si chiedeva il famoso scrittore americano di racconti Raymond Carver in una delle sue opere più conosciute, dal titolo omonimo. Nella raccolta di poesie La distruzione dell’amore (Interno Poesia, pp. 140, euro 13) Anna Segre, «medico, psicoterapeuta, anche ebrea, in più lesbica, perfino mancina» (come si presenta nella nota biografica), suggerisce una serie di possibili risposte a questa domanda cruciale.
L’AUTRICE INDAGA, lontano da luoghi comuni e falsi pudori, le variegate sfumature di un sentimento che dall’antichità ai giorni nostri è stato motivo centrale di tanta produzione poetica, dandogli forma e spessore rinnovati nel disvelamento dei chiaroscuri che lo abitano (pienezza e abbandono, desiderio e indifferenza, passione e rabbia) e nella messa in scena vivida e dettagliata di quella radicale ambivalenza da cui è segnato ontologicamente, che fiorisce e sfiorisce senza posa attraversando tutte le stagioni dell’esistenza e del cuore.
Con un dettato essenziale e inquieto, a tratti tranchant e caustico, sempre ironico. Segre scrive dell’incontro/scontro di due amanti (sé stessa e donne diverse con cui si relaziona negli anni), armate di parole e gesti acuminati, che si fronteggiano belligeranti e si sfidano senza remore in un girotondo che al suo culmine commuta l’abbraccio erotico e sensuale in una vertigine e poi in una stretta asfittica, da cui non resta che sciogliersi alla ricerca di una pace dai toni annacquati ma salvifici, che «costa quasi quanto una guerra». E del resto già il titolo, La distruzione dell’amore, allude enigmaticamente alla fine del sentimento amoroso, al suo sfaldarsi, implodere, annichilirsi, ma pure alla rovina a cui conduce, alla spinta distruttiva che può celarsi tra le sue pieghe più intime. «L’amore, diceva la poetessa, non è cieco: / è un Dio i cui bislacchi criteri / sfuggono alla gravitazione / e alla termodinamica, / perciò noi vediamo disordine / dove lui crea mondi».
A QUESTA DIVINITÀ dai tratti capricciosi e spesso crudeli, l’autrice dedica versi memorabili, in bilico tra una chirurgica introspezione, affidata alla potenza del linguaggio generatore di significati e di orizzonti ermeneutici, e la deriva verso cui trascina la voce dei sensi, l’eco preverbale della carne che svetta e domina su tutte le costruzioni logico-razionali, franandole miseramente. Nel territorio selvatico dell’istintualità, del desiderio che si fa urgenza, necessità non solo sessuale ma affettiva, simbiotica e totalizzante, incontriamo una serie di metafore e di similitudini che accostano le amanti, e anche l’amore stesso, all’immagine colorita di numerosi animali, pregni di rimandi simbolici da ricercarsi in parte nell’humus della cultura ebraica (chiamata in causa tra l’altro dal secondo titolo in ebraico, dopo quello in italiano, presente in ogni testo della silloge): nell’«arca di ferino amore | aspettando l’Ararat» il desiderio è «un cavallo che corre / attorno al letto», un colibrì, una tigre pigra, «un lupo tremante di commozione / e lealtà», e poi un elefante «erbivoro / che anche le tigri / temono». E le donne, impegnate in un duello a un passo dall’abisso, nella landa precaria delle emozioni dirompenti, sono di volta in volta leonessa, coyote, passero, falco, ancora lupo.
DI PAROLE, DI FERITE, di offese, di affetto, di fame, di anima, di corpi, di preghiere, di sangue, di furia, di silenzi, di memoria, di attimi, di scuse, di spavento, di cadute, di ostinazione, di odio, di domande, di speranza, di tradimento, di gratuità, di potere, di perdita, di fratture, di pace, di guerra, di rivelazioni, di ferocia, di istinto, di apparenza, di tempo, di amplessi, di abbandoni, di ritorni, di singhiozzi, di sorrisi, di baci, di distanza, di gioia, di vuoto, di errori, di noia, di nostalgia, di progetti, di trappole, di cattiveria, di ingenuità, di slanci, di idiozia, di omissioni, di orgoglio, di disciplina, di eccessi, di felicità, di appartenenza, di vendetta, di morte: ecco di cosa parliamo quando parliamo di amore, questa è la verità che ci consegna Anna Segre, come una difficile ma liberatoria eredità con cui fare i conti, insieme alla consapevolezza che un’irriducibile ambiguità attraversa gli esseri umani e ogni cosa al mondo. Ma se «l’universo si smaglia / perché il male tira i fili», il bene comunque «si ostina a tessere», e nella complessa trama dell’esistenza, quando il filo rosso del sentimento amoroso si spezza, forse, ci suggerisce l’autrice, scrivere resta «l’ultimo approdo possibile dell’anima».

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