CULTURA

Repubblica di Weimar con impassibili attori

«Allemagne / Années 20 / Nouvelle objectivité / Auguste Sander» al Beaubourg
MARIA TERESA CARBONEFRANCIA/PARIGI

Già dal titolo la mostra Allemagne / Années 20 / Nouvelle objectivité /Auguste Sander (visibile al Beaubourg di Parigi fino al 5 settembre) si presenta come un oggetto multiplo: una serie di cerchi concentrici o meglio, di insiemi che si intersecano, coincidendo fra loro in tutto o in parte. Siamo comunque all’interno di un territorio, la Germania, e di un arco temporale che ci porta indietro di un secolo esatto, agli inquietissimi anni Venti del Novecento – dentro il perimetro, insomma, della repubblica di Weimar, nata all’indomani della pesante sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale e finita nel 1933 con la Machtergreifung, la «presa del potere» di Hitler. «Una nuova età di Pericle», secondo una frase spesso citata di Ernst Bloch. O invece un mito creato a Parigi o negli Stati Uniti, «dopo la fuga e l’espatrio dei molti intellettuali che hanno dato forma e colore agli anni Venti», come ha scritto lo storico Hagen Schulze nel suo La repubblica di Weimar (Il Mulino 1987).
Un mito, forse, ma dalle origini ben solide, viene spontaneo pensare muovendosi attraverso gli ambienti di questa mostra singolare per l’ampiezza (oltre duemila metri quadri), per il numero e la varietà delle opere (quadri e fotografie, giornali, documenti e filmati d’epoca, mobili e suppellettili) e soprattutto per la struttura del percorso espositivo: il grande nucleo centrale dei ritratti fotografici di August Sander, il progetto ambizioso dei Menschen des 20. Jahrhunderts, gli Uomini (più precisamente le Persone, ndr) del ventesimo secolo, si incunea infatti nelle sale dedicate ai diversi aspetti della Neue Sachlichkeit, in italiano la Nuova Oggettività (ma in tedesco il termine evoca più la neutralità delle cose che la specificità degli oggetti).
IL NOME LO TROVÒ nel 1925 lo storico dell’arte Gustav Friedrich Hartlaub che lo scelse come titolo per una mostra alla Kunsthalle di Mannheim, cui parteciparono fra gli altri Max Beckmann, Otto Dix, George Grosz, Alexander Kanoldt, Georg Scholz, Georg Schrimpf. I visitatori, pare, non furono moltissimi, ma la formula intercettò bene lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, e si diffuse rapidamente anche fuori dagli ambienti artistici. E ancora Hartlaub fu il primo a sottolineare che il comune sforzo di «oggettivazione» non implicava necessariamente omogeneità di sguardo: all’esposizione di Mannheim parteciparono artisti «conservatori», fautori del «ritorno all’ordine», come Kanoldt o Schrimpf, e artisti, da Dix a Grosz, che nella loro ricerca di «uno stile tagliente come un coltello» si richiamarono alla radicalità delle avanguardie. Fu a questi ultimi, e in particolare al gruppo dei «progressisti di Colonia» (tra gli altri Gerd Arntz, Heinrich Hoerle, Franz W. Seiwert) che – verrebbe da dire: naturalmente – fece riferimento Sander.
A questi intrecci di influenze e di contrasti corrisponde il percorso a incastro di Allemagne / Années 20 / Nouvelle objectivité /Auguste Sander che, escludendo la possibilità di una visita lineare, si conferma anche sul piano spaziale una mostra ambivalente e plurima. Del resto è così che l’hanno voluta i due curatori, Angela Lampe e Florian Ebner, convinti che l’eccezionale ciclo fotografico di Sander – di cui qui vengono presentate centinaia di immagini – sia una galleria, anzi «un casting show degli attori della repubblica di Weimar», da mettere man mano a confronto con i quadri di Grosz, Dix, Scholz, con i funzionalissimi arredi di cucina di Margarete Schütte-Lihotzky, con il documentario sperimentale di Walter Ruttmann Berlin - Die Sinfonie der Großstadt e con il suo ancora più sperimentale Wochenende, film sonoro a schermo buio.
IN APERTURA, però, la mostra propone un piccolo prologo, tre opere che dovrebbero dare ai visitatori un’idea di quanto, in campo artistico, era avvenuto subito prima dei fatidici anni Venti. E qui, se non sorprende la presenza dell’autoritratto di Ludwig Meidner del 1913 proposto come esempio dell’espressionismo tedesco, e tanto meno della Testa meccanica di Raoul Hausmann (1919) in rappresentanza del dada, può stupire che il terzo tassello sia una fotografia proprio di Sander, probabilmente la sua più nota: Giovani contadini, datata 1914.
OGGETTO DI UN’ANALISI di John Berger che in uno dei saggi di Sul guardare (1980) ne trae spunto per riflettere sull’abbigliamento come segnale dell’appartenenza di classe, l’immagine è tra l’altro il congegno narrativo intorno a cui ruota un romanzo molto postmoderno di Richard Powers, Tre contadini che vanno a ballare, uscito nel 1985 e riedito in Italia dalla Nave di Teseo un paio di anni fa, dopo il Pulitzer allo scrittore statunitense (in copertina ovviamente la foto, soggetta a postuma coloritura).
Dunque, dobbiamo fare i conti con una «nuova oggettività» che precede la Neue Sachlichkeit, la repubblica di Weimar e soprattutto la prima guerra mondiale? E in che modo si pone questa sorta di «prequel» rispetto al percorso – e al decennio – successivo? Quali contraddizioni volute o casuali può mettere in luce? Le risposte non mancano, e sono felicemente ambigue.
DA UN LATO, omettere l’attività di Sander negli anni Dieci sarebbe impossibile: numerose fotografie del gruppo di apertura dei Menschen, quello dedicato ai contadini, risalgono al 1912; e lo stesso fotografo fissa ancora prima la data di avvio, quando presenta il suo lavoro in una conferenza all’inizio degli anni Trenta: «L’idea di base della mia opera fotografica Menschen des 20. Jahrhunderts – iniziata nel 1910 e contenente circa cinque-seicento fotografie, una selezione delle quali è stata pubblicata nel 1929 con il titolo Antlitz der Zeit – non è altro che una professione di fede nella fotografia come linguaggio universale».
In base a queste parole il progetto «di tracciare un ritratto fisionomico odierno dell’uomo tedesco» anticiperebbe, e di molto, la Neue Sachlichkeit. In realtà, avvertono Lampe e Ebner, l’idea dei Menschen si sviluppa gradualmente e solo negli anni Venti, in particolare dopo l’incontro con i più giovani «progressisti di Colonia», assume la struttura che possiamo vedere (e che comunque subisce nel tempo varie modifiche). Le fotografie degli anni Dieci sarebbero quindi in primo luogo «l’opera di un fotografo itinerante nel Westerwald«, la terra di provenienza di Sander: scatti venduti di settimana in settimana alle persone ritratte, prima che tasselli di un’opera destinata a diventare ineludibile nella storia culturale del Novecento.
LA SPIEGAZIONE È PLAUSIBILE, e in parte convincente: mette in risalto, tra l’altro, la genesi spesso casuale di un progetto, la necessità di un’elaborazione lunga, l’importanza di un confronto tra generazioni diverse (spunti di riflessione non secondari anche per il nostro presente). E tuttavia, come sempre, e per fortuna, non mancano i dubbi, perché lo sguardo che Sander posa sui contadini del Westerwald negli anni Dieci è già sachlich, fattuale, oggettivo, e i contadini ricambiano il suo sguardo – seguendo quasi certamente le indicazioni date dal fotografo – con un’espressione volutamente «inespressiva», priva di emozioni visibili.
Non si nota insomma una frattura fra l’impostazione di questo ciclo e quella dei successivi – l’artigiano, la donna, le istituzioni, gli artisti... – nonostante ci sia di mezzo il gigantesco spartiacque della guerra, seguito dal clima incandescente dei primi anni della repubblica di Weimar. La contraddizione resta aperta nella mostra del Beaubourg e anzi si accentua quando si mettono a confronto le immagini dei contadini di Sander con le opere della sezione «Persona fredda», ispirata a un’ipotesi dello storico della cultura Helmut Lethen, secondo il quale la maschera di imperturbabilità tipica di molti ritratti della Neue Sachlichkeit sarebbe il frutto di una cultura della vergogna, della profonda umiliazione seguita alla tragedia della prima guerra mondiale.
QUADRI come Il profittatore di Heinrich-Maria Davringhausen o La giornalista Sylvia von Hayden di Otto Dix, dove la rappresentazione dei sentimenti viene affidata agli accessori (gli abiti, il calice, i sigari o sigarette) e non all’espressione dei volti, ne sarebbero un esempio, al quale tuttavia si potrebbero contrapporre non soltanto i contadini di Sander, fotografati ben prima dello scoppio del conflitto, ma anche opere di molto precedenti (un’altra mostra parigina, Le théâtre des émotions, chiusa pochi giorni fa al Musée Marmottan e dedicata appunto alla raffigurazione delle emozioni nell’arte dal Cinquecento a oggi, presentava fra l’altro una Maddalena fiamminga impassibile e tuttavia pentita, a riprova un fazzolettino umido e sgualcito). Non per forza l’imperturbabilità è sintomo di vergogna.
E d’altra parte, anche l’eroico sforzo di oggettivazione di Sander si scontra con le sue stesse necessarie contraddizioni. L’ultima immagine dei Menschen des 20. Jahrhunderts ritrae la maschera mortuaria di Erich, il figlio del fotografo, che avevamo visto bambino e studente in altri scatti, scomparso in carcere nel 1944 dopo una lunga prigionia per la sua attività di resistenza al regime nazista. Una fotografia cui fa da contraltare, all’altro capo dell’attività di Sander, il ritratto, datato 1911, della moglie Anna (Meine Frau in Freud und Leid, «Mia moglie nella gioia e nel dolore») che tiene in braccio, uno per parte, i suoi due gemelli appena nati, uno vivo e l’altro morto. Senza lacrime, gli occhi fissi in quelli del marito-fotografo. L’immagine sarà poi inserita da Sander nella sezione «Donna e bambino» dei Menschen – una persona del ventesimo secolo, la testimonianza della fotografia come linguaggio universale.

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