CULTURA

La materialità del corpo e la sintesi interpretativa

«Filosofia e tecnologia», a proposito dell’ultimo libro di Roberto Finelli
MARCO GATTOITALIA

Per un nuovo materialismo: così s’intitolava la raccolta di saggi data alle stampe da Roberto Finelli nel 2018, secondo un esplicito richiamo all’obiettivo della sua riflessione politica e culturale. Con Filosofia e tecnologia. Una via di uscita dalla mente digitale, uscito sempre per i tipi di Rosenberg&Sellier (pp. 184, euro 16), l’invito a una rinnovata filosofia materialistica si concretizza ora nell’accesa demistificazione di quella nuova «antropologia decorporizzata» che è riassunta dal termine «infosfera». La quale, per Finelli, non solo rappresenta una delle più recenti ideologie del pensiero contemporaneo, chiaramente alimentata dal ruolo sempre più invasivo della tecnologia nelle nostre esistenze, ma vale a confermare la pericolosa vitalità del principio, sostenuto negli ultimi quarant’anni dalle filosofie postmoderne, di una realtà interamente composta da linguaggio e comunicazione.
IN TAL SENSO, l’idea che si possa ridurre la vita organica a un segno privo di concretezza si accompagna, nell’attuale orizzonte culturale, alla concezione secondo cui «la realtà, naturale e umana, senza eccezione alcuna sia costituita da informazione, che la materia non sia altro che informazione, che i nostri corpi e le nostre menti, nei loro componenti ultimi, non siano costituiti da altro che da informazioni». Il dato antimaterialistico di una tale credenza appare persino evidente, se colto in superficie. Ma, per Finelli, esso è, più profondamente, il sintomo di una pretesa sottile e rischiosa: quella di «rendere la mente indipendente dal corpo», cioè di trascinare le attività umane verso configurazioni «astratte senza fondamento», risolte in meri atti linguistici o in rappresentazioni epidermiche, ovvero private di qualsiasi relazione con la materialità corporea, biologica ed emozionale (a sua volta interpretata come segno fra i segni). Con Freud, attraverso Spinoza, Finelli prova invece a dimostrare che la relazione mente/corpo non può essere pensata attraverso scissioni adialettiche: è necessario ribadire che «la mente umana, essendo sempre mente di un corpo, non può mai ridursi a essere mente solo linguistica». Se le filosofie postmoderne, attraverso il magistero di Heidegger (altro bersaglio ideale delle riflessioni di questo libro), hanno imposto la formula «Essere = Linguaggio» (per dirla con la felice sintesi di Romano Luperini), favorendo un oblio della dimensione materiale, a beneficio di una corporeità interamente sussunta entro le rappresentazioni linguistiche, un rinnovato pensiero materialista, sostiene Finelli, non può che ripartire dal ricongiungimento dialettico di corpo e mente e dal considerare il corpo come sede primaria di un’attività che in sé già contiene, nella sua materialità, momenti di sintesi interpretativa. «Per noi il linguaggio non pone, non crea il senso, ma lo esplicita, lo rivela. Il senso è del corpo, è nel corpo», insiste Finelli.
E TUTTAVIA, un’ideologia fondata sulla smaterializzazione del concreto – secondo i termini, diremmo, di una nuova trascendenza che, coincidendo con la dittatura di una superficie leggera, istituisce un’immanenza solo astratta, paradossalmente priva di fondamenti – dev’essere demistificata, per Finelli, evidenziando l’estenuazione di due cattive infinità.
Da un lato, il monismo del corpo, per cui quest’ultimo è l’unica e fondamentale dimensione di realtà, quasi che il biologico contenga «immediatamente il mentale», senza che siano poste relazioni dialettiche: glorificazione del vitale come fonte di senso che ha incontrato, dice ancora Finelli, il favore di tanto postmodernismo filosofico, contrario a ogni forma di stabilizzazione concettuale (qui il bersaglio è chiaramente Deleuze); dall’altro, il monismo della mente, con la sua «assolutizzazione di una mente speculativa», che genera appunto «astrazioni senza fondamento», secondo i cardini di un’ideologia che superficializza concetti e realtà, come accade nel caso dell’infosfera.
A QUESTA valorizzazione dell’uno o dell’altro estremo Finelli oppone un «dualismo antropologico» di stampo dialettico, per il quale «l’interiorità umana», con Kant, verticalmente «si compone dell’attività di integrazione di un molteplice», e, con Hegel, si costituisce, sull’asse orizzontale, per mezzo di un riconoscimento intersoggettivo.
La divaricazione adialettica di mente e corpo – o, se si preferisce, la loro rispettiva infinitizzazione – ha bisogno infine di essere letta con le lenti di Marx, per vedere che la sovradeterminazione della superficie o le limitazioni imposte da un materialismo vitalista non sono altro che «sintomi» di quella universalizzazione del capitale che, come Finelli ci ha insegnato a partire dalle sue ricerche hegelo-marxiane, si fonda sullo svuotamento del concreto da parte dell’astratto. Di questo processo capitalistico, capace di promuovere soggettivazioni a bassissimo tasso di coscienza storico-materiale, la logica dell’esteriorità e l’ideologia del digitale sono due espressioni dirette.

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