VISIONI

Dalla pace alla rabbia, suona un’altra musica

La fine degli ideali della Summer of love, lo scontro generazionale, le responsabilità degli organizzatori
LUCREZIA ERCOLANIUSA

«Sembra Il signore delle mosche» afferma divertito un partecipante di Woodstock ’99 alla fine del terzo giorno di festival. Lo scenario intorno a lui è impressionante: persone che corrono furiosamente intorno a fuochi incontrollati, torri dell’impianto audio abbattute e distrutte, banchi del merchandising presi d’assalto e saccheggiati. È il finale della celebre manifestazione simbolo del «flower power», riesumata trent’anni dopo e ripercorsa nel documentario in tre parti Trainwreck: Woodstock ’99 diretto da Jamie Crawford e disponibile su Netflix. Le puntate trattano ognuna un giorno di festival, in una sorta di escalation verso il disastro (trainwreck). Sullo stesso argomento era stato realizzato lo scorso anno da Hbo un film piuttosto simile, con interviste agli attori coinvolti e materiali di repertorio, Woodstock 99: Peace, Love, and Rage, diretto da Garret Price - a testimonianza delle strane guerre tra broadcaster che si inseguono e si copiano senza problemi laddove vedono possibilità di successo.
OLTRE a mettere in fila quanto accaduto, con il piglio sensazionalistico tipico dei prodotti della piattaforma, Trainwreck apre numerose riflessioni sul legame tra musica e società di fine millennio. I trent’anni trascorsi dall’edizione originale del 1969 si fanno sentire innanzitutto sulle scelte e la mentalità degli organizzatori, giovani hippie trasformatisi in impresari, tra cui il «padre» di Woodstock Michael Lang morto lo scorso gennaio. Se il festival era nato come una festa collettiva ispirata ai valori di pace, amore e libertà, nel 1999 lo scopo fu solo e unicamente quello di fare quanti più soldi possibile, sfruttando un marchio ormai svuotato da qualsiasi significato. Erano quelli gli anni dello strapotere di Mtv, in cui il rock da classifica, in scaletta a Woodstock 99, era visto come una vera e propria gallina dalle uova d’oro. Quella volta però il gioco sfuggì di mano a tutti.
Gli esiti della manifestazione si mostrano come opposti rispetto a quella originale, dove la convivenza pacifica e un’idea di società diversa lasciano il posto alla violenza e alla distruzione. Alle battute finali, Lang dice: «Woodstock del ’99 ha rovinato quello del ’69? Un po’ sì». L’effetto simbolico non è da poco, osservando la guardia nazionale con i manganelli alzati per sedare i disordini laddove nell’edizione originale la polizia era stata volutamente tenuta lontano dal festival. In Italia sappiamo però come già nei ’70 i concerti degeneravano, da Santana a Parco Lambro. Il rischio è quello di estremizzare il discorso, da un lato la «magia» del ’69, divenuta ormai un mito, dall’altro la musica «istigatrice» di fine millennio, certo più rabbiosa di quella di un tempo - si esibiscono sul palco, tra gli altri, Rage Against the Machine, Korn, Limp Bizkit in un grande calderone insieme a James Brown e Willie Nelson.
La rabbia però non si può semplicemente demonizzare come accade talvolta nel documentario, chiede di essere presa sul serio. C’è infatti tra le righe di Trainwreck un discorso generazionale: i reduci della Summer of love, per lo più dimentichi dei vecchi ideali, sono proprio coloro che lucrano sui giovani di una generazione dai sogni infranti, che ha visto la strada del benessere e della realizzazione farsi sempre più tortuosa.
IN SOSTANZA, sottovalutare lo stato d’animo di una folla di 250.000 ragazzi e ragazze trasportandoli su una spianata di cemento in un’ex base aerea, sotto il sole, con servizi igienici carenti, raccolta dei rifiuti nulla, acqua contaminata, vendita di cibo e bevande appaltata a servizi esterni con prezzi alle stelle, scarsa sicurezza - non è certo da poco, considerato che tutte queste scelte si spiegano con il semplice tentativo di aumentare gli incassi oltre a quelli derivanti dai già salati biglietti - nel ’69 l’ingresso fu invece gratuito. La goccia che fece traboccare il vaso, letteralmente «giocando con il fuoco», fu la decisione di distribuire una candela da accendere a tutti i partecipanti durante il set di chiusura dei Red Hot Chili Peppers, verosimilmente per creare un effetto scenografico, nelle parole di Lang per realizzare una «veglia» contro le armi - testimonianza della superficialità che contraddistinse l’ideazione di Woodstock 99.
LA VERA sconfitta, comunque, risiede nella conta degli stupri: quattro quelli denunciati. Risulta un po’ posticcio il tentativo della serie di affrontare la questione parlando del #metoo e di come oggi tali episodi non sarebbero possibili. La sensibilità è forse cambiata - ci si chiede poi fino a che punto - ma la questione è che una massa aizzata difficilmente può essere contenuta. Quella forza della disidentificazione, che Elias Canetti ha analizzato in Massa e potere, trascende il singolo e i suoi limiti. Quando ai «reduci» dal concerto gli intervistatori chiedono se parteciperebbero mai a un’altra Woodstock, rispondono sì senza esitare, definendo quell’esperienza la più bella della loro vita. Un’esperienza di intensità - che la condanna delle violenze non può comunque cancellare.

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