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É morto l’hacker Salvatore "Nuke"Iaconesi

Hacker’s Dictionary
ARTURO DI CORINTOITALIA/reggio calabria

Gordon French era un hacker. Wau Holland era un hacker. Jude Milhon era un hacker. Lee Felsenstein, Eric Corley, Richard Stallman, lo sono ancora. Ma la parola hacker, una delle parole più controverse della storia recente, non è un vestito che si adatta a tutti.
Alcuni di questi hacker si sono fatti le ossa dentro l’Homebrew Computer Club, nato per iniziativa di Gordon French e Fred Moore, che si conobbero al Community Computer Center a Menlo Park, California, per creare un gruppo di persone che si incontrasse regolarmente e realizzare un computer alla portata di chiunque. Tra i suoi membri c’era anche Steve Jobs che chiese a Stephen Wozniak, un altro membro del gruppo, di progettare l’Apple I e venderlo nelle riunioni del club.
Wau Holland, (Herwart Holland-Moritz), giornalista, è stato un attivista tedesco nel campo della computer security e nel 1981 contribuì a fondare il Chaos Computer Club (CCC), durante una riunione presso il giornale Die Tageszeitung, in previsione dell’impatto che le tecnologie informatiche avrebbero avuto sul modo di comunicare e vivere delle persone.
Jude Milhon, tra i creatori del Community Memory Project, è l’hacker americana che ha coniato il termine cypherpunk. Jude è stata compagna di vita di Lee Felsenstein, anche lui tra i fondatori dell’Homebrew Computer Club e del Community Memory nel 1973. Progettista del computer Osborne One, ha inventato «Internet a pedali»: un computer con software open source alimentato dalle pedalate di una bicicletta da distribuire nelle aree in via di sviluppo.
Emmanuel Goldstein, pseudonimo di Eric Gordon Corley è il giornalista, scrittore e hacker direttore della bibbia degli hacker 2600: The Hacker Quarterly.
Non basta avere una laurea in cybersecurity e nemmeno lavorare in un Red Team aziendale e fare test di penetrazione sui sistemi da difendere per essere definiti hacker. E neppure basta essere individui tecnicamente virtuosi per meritarsi questo appellativo che invece va riservato soltanto a chi aderisce ai principi dell’etica hacker.
Questi principi, seppure modificati nel tempo, rimandano a un modo irriverente e giocoso di porsi di fronte alle macchine informatiche per esplorarne potenzialità e limiti, metterne la ricerca hands on in comune con altri e fare il bene di tutti.
Un hacker costruisce, non distrugge. E, come ha scritto Goldstein: «Ormai ci sono molte persone normali che condividono i valori degli hacker, cioè la libertà di parola e il potere dell’individuo davanti allo stato o alle corporation, perché la difesa dell'individuo è ciò che conta».
Salvatore Iaconesi, morto a Reggio Calabria il 18 luglio, era un hacker. Ha passato la vita a inventare cose utili per le persone, social network rispettosi della privacy, software di simulazione per indagare i problemi della società, e intelligenze artificiali per creare comunità di quartiere.
Con la sua compagna nell’arte e nella vita, Oriana Persico, ha sviluppato una poetica dei dati digitali che l’ha portato a creare la fondazione Her, She Loves Data e il progetto del Nuovo abitare, una sperimentazione all’incrocio tra generazione dei dati e identità virtuali per creare la consapevolezza del valore del tempo, dell’attenzione e dell’ascolto che dedichiamo a noi stessi e agli altri.
Lui sapeva che obbiettivo di Big Tech è rubare la nostra attenzione, distraendoci da quello che è veramente importante: l’incontro con l’altro. Perciò ne contestava il business model.
Salvatore era un data-warrior che ha combattuto con amore anche il suo tumore al cervello.
Salvatore è salito nel pantheon degli hacker.

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