COMMENTO

L’esilio civile del più grave attentato del Paese

Strage di Bologna
DAVIDE CONTIITALIA/BOLOGNA

Una democrazia compiuta non avrebbe dovuto permettere che il tragico peso della strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti e 200 feriti) ricadesse interamente per decenni sulle spalle e sulla memoria personale delle vittime e dei loro familiari.
Tuttavia, pur rappresentando un prisma con cui poter leggere non solo le tante sfaccettature complesse e contraddittorie del nostro tempo ma anche i caratteri, le forme e la china assunta dalla democrazia nata dalla Resistenza (o forse proprio per questo), il più grave eccidio di civili della storia della Repubblica ha subìto per quaranta anni una sorta di esilio confutativo dal discorso pubblico.
Da un lato l’attentato della stazione di Bologna è stato spesso separato, per circostanza e finalità, dalle altre «stragi di Stato» della fase 1969-1974, come fosse un fatto a sé stante privo di contesto e radici storigli eventi pregrche e non piuttosto «figlio» deessi. Dall’altro lato, attorno ai suoi responsabili è stata costruita una campagna innocentista (ammantata di un improbabile garantismo) che non registra eguali rispetto alle vicende processuali delle stragi di Piazza Fontana, Peteano, questura di Milano, Piazza della Loggia, treno «Italicus».
In ognuna di queste operazioni paramilitari di stampo neofascista si sono registrati depistaggi, infondatezze giudiziarie o arbitrii di potere. Ma mai i riconosciuti autori materiali hanno potuto godere di un così esplicito sostegno nel dibattito pubblico da parte tanto di larghe porzioni della politica (la destra ma non solo) quanto di settori non marginali della stampa nazionale. Eppure il 2 agosto 1980 racconta molto dello spaccato storico dell’Italia di allora, interrogando gli assetti del nostro difficile e convulso presente.
Nella strage sono coinvolti direttamente i servizi segreti militari nelle persone (condannate in via definitiva per depistaggio) del generale Pietro Musumeci, del colonnello Giuseppe Belmonte e dell’agente del Sismi Francesco Pazienza; i servizi segreti civili nella persona del capo dell’Ufficio Affari Riservati Federico Umberto D’Amato (ritenuto, secondo sentenza di primo grado, uno dei mandanti dell’eccidio assieme al capo della Loggia P2 Licio Gelli); il senatore del Msi e direttore de «Il Borghese», Mario Tedeschi; i neofascisti dei Nar Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini (in via definitiva), di Ordine Nuovo Gilberto Cavallini (primo grado), di Avanguardia Nazionale (Paolo Bellini, condannato in primo grado e già collegato con il Ros dei carabinieri di Mario Mori e con la ‘ndrina calabrese della famiglia Vasapollo). Vi sono, infine, un fiduciario del Sisde (Domenico Catracchia) e un altro colonnello dei carabinieri (Piergiorgio Segatel) condannati in primo grado per depistaggio e false informazioni.
Un quadro che rappresenta e colloca la natura della democrazia italiana all’interno di quel particolare contesto della Guerra Fredda che caratterizzò tutto il corso della vicenda repubblicana fino al 1989 e che in nome dell’anticomunismo di Stato permise l’emergere di un fenomeno unico nell’Europa occidentale: lo stragismo come forma paramilitare della politica di atlantismo oltranzista.
È attorno a quella interpretazione del conflitto bipolare che non solo è rintracciabile la logica operativa delle stragi di Milano, Brescia e Bologna o le menzogne sull’abbattimento del DC9 di Ustica ma anche il realismo che spinse il segretario del Pci Enrico Berlinguer alla dichiarazione (oggi strumentalizzata in funzione propagandistica pro-guerra) di sentirsi «più al sicuro sotto l’ombrello della Nato». Non già e non certo per convincimento quanto, nella volontà di lottare per allargare il processo democratico, nella grave consapevolezza della limitazione della sovranità politica dell’Italia che in nome delle ragioni dell’Alleanza Atlantica non avrebbe mai permesso ai comunisti l’accesso al governo del Paese.
I mancati conti con quella stagione mantengono oggi un’anomalia che interessa l’intera struttura istituzionale, trasformando e deformando ogni elezione politica in una «chiamata» alla difesa della Costituzione contro una destra che, dal Berlusconi ex iscritto alla P2 fino ai Fratelli d’Italia eredi del Msi, non solo è ostile all’eredità della Resistenza ma si richiama senza remore a figure come il fondatore di Ordine Nuovo, Pino Rauti o come Giorgio Almirante (già segretario di redazione della Difesa della Razza, poi esponente di Salò ed infine segretario missino amnistiato per il reato di favoreggiamento nell’inchiesta sulla strage di Peteano). La stessa destra che da anni, contro ogni evidenza, cerca di deviare le responsabilità del massacro.
Nel 1994 all’indomani della vittoria delle destre (guidate da Berlusconi) nelle elezioni politiche, Fioravanti e Mambro si rivolsero agli ex camerati del Msi dichiarando a Gian Antonio Stella: «Voi al governo, noi in galera». A quasi trent’anni di distanza il Paese sembra ancora fermo lì. Mentre a Bologna, oggi come ogni anno degli ultimi quarantadue, tutta la città si ritroverà davanti alla stazione sostituendo il lungo silenzio dello Stato con le voci e le parole della piazza.

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