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Roma, il rogo di libri a Porta del Popoli

Divano
ALBERTO OLIVETTIITALIA/ROMA

Un libro sempre si offre come invito alla libertà e come presidio della libertà di giudizio, di idee, di pensiero. Una istanza preziosa e irrinunciabile al laborioso, difficile farsi uomini degli uomini. Ciascun libro quella istanza eminentemente umana la racchiude e la custodisce per il lettore che saprà declinarla e farla propria o accogliendola o, con motivati argomenti, ponendola in discussione e, se del caso, respingendola. Qui dico dei volumi delle bancarelle dell’usato, là dove la copia che sfogli ti giunge tra le mani con i segni delle sue trascorse vicende. Le sue, le integralmente sue, con le tracce di letture pregresse; o una sottolineatura rivelatrice; o la segnatura di antecedenti ordini sugli scaffali d’un tempo. Ti si mostra un ex libris incollato sul foglio di guardia; o la firma del precedente proprietario; o la dedica dell’autore all’amico, questa affettuosa, o, allo studioso rispettato, questa deferente. È così che ogni volume ti immette in un gioco di affinità e rispondenze elettive, mondi sospesi intatti, che sta a te rianimare e restituire vivi ai tuoi pensieri, alle tue responsabilità e doveri, ai tuoi sentimenti e ai tuoi giorni. Certe volte ti giungono intonsi, quei libri, i sedicesimi mai tagliati, come appena usciti dalla tipografia, decenni orsono, quasi ad aspettar te, per sovrana misteriosa elezione, privilegiato destinatario che qui, oggi, entri in possesso di quella copia a te destinata da un concorso di imponderabili, ma tutte, a ben pensarci, significative circostanze e virtuose combinazioni. Non dico nulla di nuovo e pecco, forse, d’un’enfasi eccessiva. Ma scrivo preso da uno stato d’animo in cui si agitano i motivi profondi e irrinunciabili che hanno consegnato a una vita tra i libri la più parte della mia vita.
Nella notte tra venerdì e sabato della scorsa settimana, qualcuno ha appiccato il fuoco alle molte centinaia di libri (cinque, forse seimila volumi) disposti in pile su una dozzina di banchi accostati. Un rogo di libri a Roma, di fronte alla Porta del Popolo, inceneriti su quel largo marciapiede che da vent’anni ospita la «Bancarella del Professore» di Alberto Maccaroni, affidata al suo impeccabile collaboratore Mustafà, situata al centro di piazzale Flaminio, là dove si separa l’accesso solenne a Villa Borghese dal viale del Muro Torto, che corre su, lungo le Mura Aureliane, fino a Porta Pinciana e all’imboccatura di via Veneto.
Sono un assiduo della «Bancarella del Professore». Un giorno, tempo fa, faccio acquisti per una cinquantina di euro. Sono per salutare Mustafà quando su una costa consunta color biscotto leggo Saggi critici. Estraggo il volume dalla pila. Si tratta del numero 45 dell’edizione originale in duecento esemplari della celebre silloge d’esordio di Giacomo Debenedetti, stampata, per cura di Alberto Carocci, a Firenze nel 1929 dalle Edizioni di Solaria. Sulla prima pagina leggo il mio nome: «Ad Alberto, con fraterna amicizia Giacomino. 12 giugno 1929». Quell’Alberto non sono io, è Alberto Carocci, ma anch’io sono Alberto e il libro, con quella dedica, è venuto ora a me, novant’anni ci ha messo. Non ho più soldi. Costa sei euro. Lo faccio presente a Mustafà che mi dice, sostituendosi a Debenedetti e sostituendomi a Carocci: «Questo è un omaggio per te». Dentro di me sento che è vero.
Sette giorni fa, a Roma, hanno incendiato libri come avviene nei tempi di cieca violenza. Ignoto l’autore (o gli autori) del rogo, al momento si indaga. Una ipotesi è quella d’una bravata, il gesto gratuito perpetrato da un gruppo di quei giovani che, vuota la testa, numerosi a tarda notte sciamano via dal centro. Altre ipotesi orienterebbero le indagini verso l’occulta presenza di organizzazioni criminali che investono e riciclano capitali ingenti, da tempo assicuratesi il controllo degli esercizi commerciali in quel reticolo di nobili strade da piazza del Popolo a Fontana di Trevi, da piazza di Spagna al Pantheon. Solo chi ci vive e chi ci lavora conosce a pieno il degrado sociale che affligge il cuore antico di Roma, se non promosso e favorito, almeno interessatamente consentito, da 30 anni in qua, dalle amministrazioni capitoline, una via l’altra.

 

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