SOCIETA

Gli insostenibili allevamenti intensivi lungo il fiume Po

Richiedono molta acqua e hanno un impatto sul cambiamento climatico, a causa della fermentazione enterica degli animali
VALERIO NICOLOSIITALIA/cremona

I grandi campi coltivati di mais e di erba medica accompagnano i lunghi rettilinei delle provinciali che collegano i paesi della Pianura Padana nel tratto tra Mantova, Cremona e Lodi dove il cuore pulsante dell’economia sono l’agricoltura e l’allevamento per la produzione dei salumi e dei derivati del latte. Spostandosi da una provincia all’altra, il Po lo si costeggia in diversi punti, mentre in altri appaiono i numerosi canali d’irrigazione oltre al Mincio, l’Oglio, l’Adda e gli altri affluenti naturali che proprio insieme al Po hanno dato la possibilità a queste terre di sviluppare la propria economia senza doversi preoccupare dell’approvvigionamento di acqua.
«IN PASSATO al massimo eravamo preoccupati di come smaltirla l’acqua» ci racconta un tecnico della sede di Mantova dell’Anbi (Associazione Nazionale Bonifiche Irrigazioni Miglioramenti Fondiari), che nella zona gestisce centinaia di chilometri di canali irrigui che arrivano direttamente ai coltivatori e agli allevatori. «Una siccità di questo tipo non si vede almeno dal 2003, ma forse anche da prima» aggiunge mentre ci mostra il punto in cui l’Oglio confluisce nel Po, dove il letto del fiume per decine di metri si è trasformato in spiaggia. Nei giorni non troppo caldi c’è chi viene a prendere il sole su queste spiagge, mentre altri si dedicano al birdwatching.
Il giorno precedente alla nostra visita un forte acquazzone ha fatto cadere molta pioggia in poco tempo, non quello necessario al terreno per assorbirla e dare un po’ di respiro alle coltivazioni.
A CREMONA C’È STATO un vero e proprio uragano che ha abbattuto alberi e divelto il tetto di una palazzina in città. «Siamo in un clima tropicale, nel giro di qualche anno dovremmo aspettarci i monsoni» commenta un piccolo agricoltore che sta preparando la sua pompa idrica per il campo di mais. «Con l’acqua di ieri i canali d’irrigazione si sono riempiti di qualche centimetro ma l’estate è lunga, se alterna siccità a forti temporali il raccolto lo perdiamo sicuramente» aggiunge mentre l’irrigatore inizia la sua danza circolare a cadenza regolare. Litri d’acqua necessari nel periodo precedente alla raccolta, pena la perdita di tutto il raccolto.
NEI PAESI DEL BASSO lodigiano, resi famosi dalle cronache della prima fase del Covid, troviamo Simone, titolare di un’azienda agricola che coltiva e alleva animali in modo diverso dalle altre della zona. «Avevamo più di 200 bovini e producevamo latte per il mercato industriale, oggi invece ne abbiamo 90 di una razza importata dall’Inghilterra e produciamo un latte particolare, che vendiamo direttamente a pochi punti sparsi nelle città, da Roma a Milano» ci racconta mentre entriamo nella stalla. Niente mangimi industriali, tanto pascolo e cicli naturali della lattazione: Simone ha scelto di produrre meno e di farlo in modo etico, questo gli permette anche di adattarsi ai cambiamenti climatici in corso: «A noi arriva l’acqua dal lago di Como attraverso dei canali e ad oggi possiamo attingere solo al 50% della fornitura solita, al posto del mais produciamo del foraggio che richiede molta meno acqua». L’azienda non ha vincoli di produzione con la grande distribuzione, questo permette di poter avere dei cali nella produzione nonostante la siccità. Chi invece produce latte per la grande distribuzione deve rispettare gli impegni e ogni giorno deve consegnare la stessa quantità di latte e per farlo deve ricorrere a ogni mezzo.
SONO PROPRIO gli allevamenti intensivi a essere accusati di non essere sostenibili a livello globale a causa dell’impatto che hanno sui cambiamenti climatici. In questi giorni è stata la Lav a mobilitarsi con la sua responsabile per gli allevamenti Lorenza Bianchi. «Si stima che l’agricoltura contribuisca tra il 16 e il 20% alle emissioni di gas climalteranti, e di questo impatto il 70% è attribuibile alla zootecnia. Da un lato quello diretto del consumo di grandi quantitativi d’acqua per irrigazione di foraggio, come mais e soia, e per l’abbeveraggio degli animali. Dall’altro quello indiretto, attraverso il suo impatto sul cambiamento climatico, a causa della fermentazione enterica degli animali, del disboscamento per fare spazio a pascoli e colture di foraggio, e dello smaltimento dei reflui».
LA STESSA LAV negli anni scorsi ha commissionato lo studio Cara Carne all’associazione di ricerca Demetra per capire l’impatto che ha la produzione di carne sull’ambiente e sull’uomo. Tra i dati della ricerca c’è quello impressionante nella disparità per l’utilizzo di acqua tra bovini e proteine vegetali: per 100 grammi di carne bovina c’è bisogno di 73 litri d’acqua nel ciclo della vita dell’animale, mentre per la stessa quantità di piselli sono necessari 6,6 litri.
UN ALTRO ASPETTO emerso dalla ricerca e già noto agli addetti ai lavori è l’inquinamento per le emissioni di metano dovuto allo smaltimento dei reflui animali. Il metano rilascia il particolato nell’aria che insieme all’anidride carbonica sono i responsabili dell’effetto serra, che a sua volta influisce sui cambiamenti climatici.
Un cane che si morde la coda che in questo punto d’Italia ha portato a un’emergenza che da un lato si è palesata negli ultimi mesi a causa della scarsità di pioggia, ma dall’altro ha ragioni che vengono da lontano, e sono legate ai cambiamenti climatici e gli esperti del settore lo denunciano da tempo. Tutto questo ha evidenziato come le produzioni di mais, riso o l’allevamento intensivo non siano più sostenibili da un punto di vista idrico e più in generale ambientale. Con questo modello di industria le grandi aziende puntano a una sempre maggiore produzione, ma i quantitativi prefissati sono impossibili da raggiungere nel momento in cui manca un elemento essenziale come l’acqua.

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