VISIONI

La durezza di un’era riflessa nelle immagini dei legami familiari

Tre film in concorso al festival ceco di Karlovy Vary: Masaaki Kudo, Christos Passalis, Beata Parkanová
MAZZINO MONTINARIREPUBBLICA CECA/KARLOVY VARY

A Far Shore di Masaaki Kudo è tra i titoli che compongono la selezione ufficiale del Festival di Karlovy Vary e che si contendono il Globo di cristallo. Un film duro, rigoroso nel suo sviluppo, implacabile e senza speranza. L'umanità che il regista giapponese sembra intercettare è come intrappolata in un girone infernale. Non a caso, per amplificare questa percezione claustrofobica, l'autore nato a Kyoto ha scelto di ambientare il suo terzo lungometraggio nell'isola di Okinawa, nota per la tragica battaglia della Seconda Guerra Mondiale e successivamente per i ripetuti crimini sessuali compiuti dai soldati statunitensi.
IN QUESTO perimetro ristretto, i protagonisti di A Far Shore si muovono tra la necessità di sopravvivere e il desiderio di percorrere una strada diversa da quella che quotidianamente calpestano. Eletta a rappresentante di una moltitudine che potrebbe abitare in qualsiasi parte del mondo è la diciassettenne Aoi, costretta a lasciare la scuola perché diventata madre troppo presto e alle prese con un marito violento che oltre a non lavorare, sfoga su di lei la sua ottusa e orrenda visione della vita. Hostess in un nightclub, Aoi non ha la possibilità di crescere per emanciparsi dai legami che la imprigionano, che la condannano a una esistenza che nessuno vorrebbe condurre.
Il fatto che Aoi sia caduta in un baratro, un po' per colpa di altri, un po' perché nella vita chi non ha esperienze sarebbe quasi legittimato a fare scelte sbagliate, potrebbe indurre lo spettatore a pensare che la ragazza debba cercare una redenzione. Ma in nome di cosa si dovrebbe redimere?
Nel film, infatti, si individua qualcosa di molto più profondo di una possibile espiazione dei propri peccati o di un problema economico che, se fosse risolto, rimetterebbe le cose al loro posto. A Far Shore conduce i nostri pensieri verso la drammatica complessità di una vita che, condotta con gli altri, si sottopone continuamente al giudizio, alla condanna, alla reclusione, a una morale che permette scientemente la prevaricazione e il conseguente azzeramento di ogni desiderio. Esiste una soluzione? Masaaki Kudo lascia a chi osserva l'onere di una risposta.
Se fuggire da Okinawa sembra impossibile, la città greca immaginaria creata da Christos Passalis nella sua opera prima Silence 6–9 appare come un punto di non ritorno, un luogo post-apocalittico nel quale un uomo e una donna, Aris e Anna, si incontrano quasi ostaggi di un incantesimo. Sono arrivati, si sono conosciuti sul limite di un confine e hanno iniziato ad amarsi. Intorno a loro, tutto è ridotto ai minimi termini. Le numerose antenne della città mettono in circolo parole che non hanno più senso per l'esistenza e per il presente. Intorno alla coppia e ai pochi abitanti, si sentono voci che provengono da un altrove, dagli «scomparsi», da persone che improvvisamente, senza un perché, sono svanite nel nulla lasciando solo una traccia vocale. Anna dovrebbe interpretare la moglie di un uomo in pena che le chiede di riprodurre qualcosa che non esiste più, come se si potesse tornare indietro, come se le macerie fossero materia per una ricostruzione. Quello che invece è chiamato a fare Aris non è chiaro. Dovrebbe apprenderlo da un direttore che non si palesa. Come K, l'agrimensore del Castello, non conosce il reale motivo del suo arruolamento.
«COSA PERDERESTI se scomparissi?», si chiedono reciprocamente i due. «Non lo so, forse gli amici», risponde Aris. «Niente», replica Anna. A ribadire che forse in una città di spettri che si fanno sentire attraverso delle antenne e delle audio-cassette, anche i vivi, i presenti, sono diventati dei fantasmi.
Una vita condotta serenamente da un uomo e una donna che hanno tutto sotto controllo, in una cittadina tranquilla. Questo è l'inizio di The Word della regista ceca Beata Parkanová. Un film per certi versi sorprendente, perché rispetto ai due precedentemente menzionati, è ambientato quando la catastrofe deve ancora accadere. All'inizio immaginiamo una storia che appartiene a un passato non troppo remoto. È il 1968, siamo in Cecoslovacchia, il protagonista si chiama Vlacav (non è un drammaturgo, ma un notaio di successo) e gli propongono un importante ruolo nel partito. Ma lui è reticente, sin dal dopoguerra si è tenuto a debita distanza dalle questioni politiche. Nel frattempo, da qualche parte dovrebbero esserci i russi. Poi, improvvisamente, il Sessantotto, l'Unione Sovietica, i comunisti, Praga, sono sospinti sullo sfondo della vicenda. Il film inizia a raccontare qualcosa di più intimo e privato, le vicende di una famiglia, di un notaio che si ammala e di una donna che deve reagire con forza. Ne viene fuori un piccolo ritratto delicato, a suo modo leggero, nonostante la cupezza del periodo. E il centro del mondo, anche se per un attimo fuggente, inizia ad assomigliare alla periferia.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it