CULTURA

Comandante Alberto, una tragica parabola

Monica Galfrè illustra nel suo libro per Einaudi «il caso Donat-Cattin»
ANDREA COLOMBOITALIA

Con il suo bel libro Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione (Einaudi, pp. 276, euro 18.50) Monica Galfrè ha compiuto una missione impossibile: dire qualcosa di non ancora detto sul terrorismo degli anni ’70-80, schiudere un nuovo orizzonte non solo per la ricerca ma per la comprensione generale di quell’epoca.
L’autrice racconta una storia nota, quella del militante di Prima Linea Marco Donat-Cattin: uno come tanti con un padre che non era come tanti. Carlo Donat-Cattin era stato più volte ministro, era uno dei principali leader della Dc. A chiamare in causa il figlio del potente era stato nella primavera del 1980 Patrizio Peci, il primo grande pentito delle Br, alludendo alle confidenze di un militante di Pl, Roberto Sandalo. Cossiga, allora presidente del consiglio, mise al corrente del grosso guaio l’amico Carlo, subito prima che lo stesso Sandalo fosse arrestato.
IL LEADER DC fece comunque in tempo a incontrare a Torino «Roby il Pazzo», che di suo figlio era non solo compagno e complice ma anche amico. Quando Sandalo finì in manette e si pentì seduta stante coinvolse nello scandalo ministro e premier, un ventilatore che girando a velocità massima spargeva fango sino ai vertici delle istituzioni.
Lo scandalo fu enorme e tuttavia non ebbe alcuna conseguenza. Solo Donat-Cattin si ritirò per qualche tempo dell’agone e sarebbe rientrato in campo presto, di nuovo ministro. Galfrè ricostruisce dettagliatamente, nella prima parte del libro, la fragorosa vicenda ed è impossibile non constatare come il cerimoniale della politica e del dibattito mediatico siano in Italia sempre uguali, impermeabili al passare del tempo e al mutare delle ere storiche. Però nel diluvio di chiacchiere e nel minuetto dello scontro parlamentare si afferma una mutazione reale, un cambiamento dell’ottica complessiva rispetto agli anni precedenti.
Per la prima volta non «un terrorista» ma, grazie alla celebrità del nome, «i terroristi» vengono riconosciuti come propri figli, a volte in senso proprio, sempre in senso figurato. Non più anonimi e gelidi nemici senza volto ma parte del Paese, ragazzi della camera accanto. Figli o figli di amici o amici dei propri figli. È appena un inizio ma pochi mesi prima considerare gli emissari del terrore qualcosa in più di piatte figurine bidimensionali sarebbe stato considerato un affronto, quasi un delitto.
L’autrice segue la stessa pista nella seconda e più sostanziosa parte della sua ricerca, quella dedicata alla disperazione del figlio. Sceglie di affidarsi alle carte processuali e non alla memorialistica dei decenni successivi perché convinta che, nonostante gli evidenti condizionamenti dovuti alle circostanze, quegli interrogatori e quelle deposizioni siano comunque più immediati e veri, meno viziati dalla tendenza a riscrivere il passato, delle ricostruzioni a posteriori. Scelta azzardata ma a conti fatti vincente perché quel che l’autrice cerca necessita proprio della verità del presente, delle emozioni e delle riflessioni in corso «all’epoca dei fatti», senza il filtro che inevitabilmente applica chi guarda a ritroso.
LA RICERCATRICE si concentra su ciò che viene abitualmente trascurato, come il rapporto sempre incombente con la morte. La morte rischiata. Ancor più la morte data. Nelle ricostruzioni del terrorismo, una scelta di potenza enorme come l’uccidere, il togliere la vita ad altri esseri umani, finisce quasi per sembrare burocratica routine. Si trattò invece spesso di un tormento, di una lacerazione tanto insanabile da spiegare probabilmente, persino più dei pentimenti e delle dissociazioni, la disfatta della lotta armata.
Risalta come altrettanto importante il rapporto con il gruppo, con i compagni, che esercita un vincolo stringente, fatto di lealtà ma anche di costrizione. Che lo si chiami «ritirata strategica» come faceva Donat-Cattin oppure dissociazione o persino pentimento, il sottrarsi alla lotta armata si configura anche come un recupero di individualità, una ripresa di possesso della propria singolarità sottratta alla tirannia solidale del gruppo.
ANCHE per questo l’autrice si sofferma su un ulteriore aspetto sempre taciuto o sfiorato solo in superficie dell’esperienza dei terroristi: la vita privata, che esisteva anche in clandestinità. I rapporti e i drammi sentimentali. Le amicizie e gli amori. La vita. Quando, denunciato da Sandalo nel maggio 1980, il «comandante Alberto» riparò in Francia per poi essere arrestato ed estradato nel febbraio 1981, aveva già imboccato la strada che in seguito si sarebbe definita della dissociazione. Sarebbe poi stato ucciso da una macchina sull’autostrada, nel giugno 1988, mentre tentava generosamente di prestare aiuto e salvare vite dopo un incidente. Libero ma ancora intimamente tormentato dal suo passato.
La parabola tragica di Marco illustra quella della sua generazione, spiega lo smottamento non solo della lotta armata ma più in generale della militanza e del senso di appartenenza collettivo che trovò il suo punto di svolta proprio nel 1980. Nella cronologia storica è il pentimento di Peci a segnare l’inizio della fine per il terrorismo rosso. Però quel pentimento, seguito da una ressa di allontanamenti dalla scelta armata, è a sua volta sintomo e conseguenza di un processo più profondo. L’impossibilità di reggere oltre una deriva che aveva portato i militanti rivoluzionari verso sponde opposte a quelle che cercavano.
Quella deriva la racconta un altro libro che scarta rispetto al punto di vista abituale. Mario Di Vito è nipote di Mario Malandrelli, il magistrato che indagò sul sequestro e l’assassinio del fratello di Patrizio Peci, Roberto. Ricapitola ora, attraverso lo sguardo «esterno» del magistrato di San Benedetto del Tronto, quel che fu a tutti gli effetti il precipitare negli inferi di una generazione politica in Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Br (Laterza, 2002, pp. 172, euro 19).
POTENDO CONTARE sui dettagliatissimi diari di sua nonna, Di Vito racconta giorno per giorno l’evolversi di una delle vicende più orrende nella storia degli anni di piombo. Segue il percorso e gli stati d’animo del nonno mentre vede la sua vita cambiare di giorno in giorno, sempre meno padrone del suo tempo perché sempre più minacciato e protetto. Ma soprattutto mentre assiste, con lo sbigottimento raggelato che campeggia in queste pagine, allo snodarsi assurdo e inesorabile di una tragedia di oscena ferocia: il sequestro di Roberto nell’agosto 1981 a opera dell’ala Br che sarebbe presto diventata il «partito guerriglia», il grottesco «processo» filmato, lo slittamento verso una dinamica non più politica ma mafiosa, sino all’esecuzione e poi alle indagini e al processo in cui il nonno dell’autore incarnò l’accusa. C’è una parola che ricorre ossessiva nelle deposizioni, nei volantini, nelle rivendicazioni di quei giorni e che riassume per intero quella deriva impazzita: «Annientamento».
Narrato quasi come un romanzo, il libro di Mario Di Vito restituisce tutta l’angoscia di quel momento: non solo dei protagonisti ma di tutti quelli che assistettero al precipitare nell’orrore del sogno rivoluzionario. Consapevoli di essere di fronte al punto di non ritorno.

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