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Processo Bataclan, il senso di una fine

ANNA MARIA MERLOFRANCIA/PARIGI

Dopo 9 mesi, 2 settimane, 5 giorni e 148 udienze, è arrivato alla fine il processo iniziato l’8 settembre 2021, e definito «storico», per gli attentati della sera del 13 novembre 2015, che a Parigi hanno causato la morte di 131 persone e il ferimento di più di 400, in tre attacchi, dallo Stade de France a 5 bar-ristoranti del 10° e 11° arrondissement e al Bataclan.
IL PRINCIPALE IMPUTATO, Salah Abdeslam, l’unico sopravvissuto del commando del 13 novembre, è stato condannato all’ergastolo, senza possibilità di alleggerire la pena. L’altro principale accusato, Mohammed Abrini («l’uomo con il cappello» dell’aeroporto di Bruxelles) è condannato all’ergastolo. I giudici hanno seguito le richieste dei pm per 19 imputati su 20. Il presidente del tribunale, Jean-Louis Periès, ha letto le lunghe pagine della sentenza, di fronte ai 350 avvocati e alle parti civili, più di 2.500 persone di una trentina di nazionalità, in parte presenti nella grande aula del tribunale costruita apposta nel cortile del vecchio palazzo di giustizia nell’Ile de la Cité, la maggior parte collegati via una radio speciale. Le pene richieste dai tre pm per i 14 imputati presenti al processo e i 6 assenti (alcuni presunti morti) vanno da 5 anni all’ergastolo. La sentenza è emessa da una giuria di soli magistrati, rimasti chiusi tre giorni in una caserma alla periferia di Parigi.
SI CONCLUDE COSÌ un processo che ha avuto il permesso speciale di essere filmato per la conservazione negli archivi. La Francia, a differenza degli Stati uniti per gli attacchi dell’11 settembre, è riuscita a «pensare», a «medicare», come ha detto una pm, e infine a giudicare la violenza inaudita dell’ideologia del radicalismo islamico, che in quel periodo ha colpito anche in Belgio e aveva intenzione di agire in Olanda.
IL PROCESSO È STATO sereno, grazie alla dignità delle parti civili. Sono state sentite decine di testimoni, esperti, psichiatri, anche l’ex presidente della Repubblica, François Hollande, un musicista degli Eagles of Death Metal, che suonavano la sera del 13 novembre al Bataclan. Non c’è stata però risposta alle domande: chi ha scelto gli obiettivi e perché?
Il processo «ha funzionato» afferma il presidente dell’associazione di vittime Life for Paris, Arthur Dénouveaux, la democrazia «ha vinto», «gli accusati hanno avuto atteggiamenti complessi ed equivoci, ma in una certa misura hanno chiesta scusa». Ieri, in attesa della sentenza in molti hanno pranzato su grandi tavole in place Dauphine, dietro il palazzo di giustizia, per chiudere questi lunghi mesi estremamente difficili, «danteschi» per l’ex procuratore della Repubblica di Parigi, François Molins. Non c’è stata ricerca di vendetta, anche se nell’attesa della sentenza il clima era teso, solenne. Il presidente Periès ha sottolineato all’apertura delle udienze: «Il processo è definito storico, fuori dalle norme, ma l’essenza stessa di un processo penale è giustamente il rispetto delle norme, cioè l’applicazione della procedura penale e dei diritti di ognuno, a cominciare da quello della difesa». Se ci saranno degli appelli, un nuovo processo, molto più breve, avrà luogo dal 12 settembre al 21 ottobre prossimi.
LUNEDÌ C’È STATO l’ultimo atto del processo, dopo le arringhe della difesa finite il venerdì precedente. Il presidente ha chiesto agli imputati: «Avete qualcosa da aggiungere a vostra difesa?». Solo uno ha rifiutato di parlare. Tutti gli altri hanno cercato le parole per chiedere perdono, la dignità delle parti civili è riuscita a penetrare nelle corazze di chi ha partecipato, a differenti grandi di responsabilità, alla serie di attentati più tragica avvenuta in Europa. Per ultimo si è espresso Salah Abdeslam e si è rivolto alle parti civili: «Vi ho presentato le mie scuse, alcuni diranno che non sono sincere, altri che sono una strategia», ma «con più di 130 morti e centinaia di feriti chi può presentare scuse non sincere di fronte a tanta sofferenza?». Abdeslam ha poi pianto su se stesso, si è lamentato delle condizioni di detenzione, dell’isolamento, ha evocato un’operazione di appendicite e si è difeso, rivolto ai magistrati: «L’opinione pubblica pensa che fossi sulle terrazze con il kalashnikov a tirare sulla gente, che fossi al Bataclan e che ho ucciso. Voi sapete che la verità è l’opposto, ho fatto degli errori ma non sono un assassino». In un momento del processo, era stata un’avvocata delle parti civili a trovare le parole per far scattare qualcosa nella testa di Abdeslam e indurlo a cercare una comunicazione con le vittime. All’inizio del processo, l’accusato era stato arrogante e chiuso in un silenzio sprezzante, si era presentato come «combattente dello stato islamico». Gli avvocati di Abdeslam, Olivia Ronen e Martin Vettes, che sono due trentenni, come l’accusato, hanno cercato di evitare all’unico membro del commando ancora in vita l’ergastolo senza possibilità di attenuare la pena, «una pena di morte lenta».

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