VISIONI

Una memoria delle immagini che abita divieti e trasgressioni

Il Giappone di Misumi, le donne di Muratova, le «Pupille» di Rohrwacher
CRISTINA PICCINOITALIA/Bologna

C'è l'afa di una domenica di giugno troppo calda persino per Bologna città di giovani, bici e piccoli portoni abitatissimi nel centro, dei giardini dove leggere o studiare e delle fughe sui colli per sentire il vento. Nel cortile con schermo della Cineteca si mescolano le lingue tra gli ospiti di ogni generazione che arrivano per il Cinema ritrovato. Una bella folla riempie le sale attenta e con l'entusiasmo della scoperta che il festival propone intrecciando itinerari tra il presente e una (necessaria) risistematizzazione critica della storia.
L'immagine dell'edizione numero 36, la magnifica scena di ballo tra Stefania Sandrelli e Dominique Sanda nel Conformista di Bertolucci – ora e purtroppo anche omaggio al suo protagonista, Jean-Louis Trintignant appena scomparso – si moltiplica sulle mura cittadine insieme a altri volti iconici che sbucano qua e là segno appunto di una presenza della manifestazione ben diffusa e radicata nel territorio e tra il suo pubblico - quello degli studenti - complice anche la relazione stretta con l'università, e quello di ogni età in attesa la sera in Piazza Maggiore della luce sullo schermo. Che può proiettare I guerrieri della notte di Walter Hill – davanti a una platea così numerosa da stupire persino il regista che tornerà a Bologna domani per il nuovo restauro di Driver l'imprendibile (1978) e per una Lezione di cinema. O unire Le pupille, il nuovo cortomeraggio di Alice Rohrwacher protagonista della giornata di domenica anche con una masterclass e il bianco e nero di Kira Muratova e dei suoi Brevi incontri (1967) - di cui Muratova è anche interprete - due film che si «parlano» e al di là della regia «femminile» in quel desiderio di libertà irriverente e un po' anarchica che li attraversa.
PER «LE PUPILLE» – presentato al festival di Cannes, e che andrà in piattaforma su Disney+ a dicembre - Rohrwacher ora al lavoro sul suo prossimo film, Chimera, e alla sua prima serie Ci sarà una volta, si è ispirata a una lettera di Elsa Morante a Goffredo Fofi in cui si raccontava la sorte di una zuppa inglese capitata in un collegio religioso tanti anni prima durante le feste natalizie. «Questo cortometraggio è un omaggio al cinema delle origini, realizzato in maniera istintiva, come fosse girato negli anni Quaranta: abbiamo giocato con le immagini, credo che abbiamo sempre bisogno di uno sguardo che ci orienti: oggi siamo sommersi da una profusione di immagini ma serve una guida per non perdersi» aveva detto presentandolo sulla Croisette.
Eccoci dunque in un collegio durante la guerra tra molte ragazzine orfane tenute a bada da una madre superiora (Alba Rohrwacher) dove una ricca signora (Valeria Bruni Tedeschi) porta un dolce chiedendo di pregare per lei visto che il suo amore si è innamorato di un'altra. Le «pupille» bimbe devono obbedire ma quelle dei loro occhi possono sfuggire al controllo davanti alla meraviglia di zucchero e liberare i loro desideri, fantasie, «trasgressioni» innocenti in una danza scatenata e piena di fantasia.
Dal colore in pellicola di Rohrwacher si entra nel bianco e nero delle donne splendide di Brevi incontri di Muratova, in quella Russia di Kruscev controllata, burocratizzata e a suo modo bigotta come questa putiniana - il film venne censurato per vent'anni - in cui si incontrano altre «pupille» tra i desideri di due donne e un uomo sfrontato.
UNA È DIRIGENTE regionale, l'altra ha seguito l'uomo geologo appassionato di musica (è il cantautore dissidente Vladimir Vysotsky) presentandosi a casa della prima - con cui lui ha una relazione - che la crede la nuova domestica. E nella traiettoria di questi amori che si sfuggono, si inseguono, si fanno anche male l'obiettivo si sposta sulle due donne, sul loro rapporto complice nel silenzio e nelle attese sempre tradite reciprocamente in una libertà formale e politica così attuale, che anzi sorprende un contemporaneo rinchiuso nelle sue gabbie, nei temi, nelle nuove regole - in quell'aria del tempo senza domande - improvvisando tra corpi, ironia, le nouvelle vague dell'epoca e la sostanza profonda di una ribellione nel gesto quotidiano del vissuto.
Le stesse inquietudini attraversano l'opera prima di Bostjan Hladnik, Dance in the Rain – nella sezione dedicata al cinema jugoslavo a cura di Mina Radonic, che prova a esplorare il passaggio dal cinema più classico del dopoguerra a quello del Nuovo cinema. Anche questa è una storia d'amore, una donna e due uomini si inseguono in una geografia urbana opprimente, popolata di fantasmi, visioni paurose, figure minacciose o ambigue che si muovono nelle stanze di case senza intimità. Hladnik – che aveva lavorato a Parigi anche con Chabrol – parte dal romanzo di Dominik Smole, Giorni neri e chiaro giorno, un melodramma con tre personaggi: un'attrice teatrale che ha perso di fama, un artista depresso che la donna ama e che si è stancato di lei, un giovane suggeritore di scena innamorato dell’attrice senza possibilità. Ciascuno dei tre cerca l'altro invano, è prigioniero di qualche sogno o di una ossessione: l'artista della bellezza ideale, l'attrice della sua (perduta) giovenizza, il ragazzo delle sue idealizzazioni amorose in una strana realtà sospesa sul fantastico, che dice di un'angoscia comune, di un senso di paura – l'essere spiati sempre e comunque – di fantasie intime e di ricordi dolorosi che scivolano in improvvise visioni del mondo «ordinarie» - i bimbi che giocano, i passi frettolosi delle persone… Ad affermare di un continua tensione cinematografica, un immaginario alla ricerca di altre direzioni. È questa una memoria possibile (e attuale) del cinema?
Nelle note che presentano il programma a lui dedicato – a cura di Alexander Jacoby e John Nordstrom - Kenji Misumi viene definito: «Un autore nel senso dato al termine dai 'Cahiers': cineasta di genere che impresse il proprio stile e la propria personalità su una materia commerciale». Inizi alla Nikkatsu, Misumi però con l'inizio della seconda guerra fu arruolato, fatto prigioniero dai sovietici e mandato in Siberia, tornò in Giappone solo nel 1948 quando riprende a lavorare nel cinema ma alla Daiei – come assistente tra gli altri di Kozaburo Yoshimura.
ESORDIO nel 1954, si specializza nei film di «cappa e spada» (chanbara), dirige il primo film giapponese in 70millimetri – Budda – ma è solo vedendo un film come Kiru (1962, Uccidere con la spada) che si comprende la sua capacità autoriale. La storia - scritta da Kaneto Shindo - segue delle linee riconoscibili tra lotte di potere e tradimenti, col bambino dotato di un dono che viene affidato a una famiglia perché lo cresca salvandolo dal suo passato tragico. Ma la narrazione, che unisce la storia del Giappone con le rivolte contro l'imperatore e quella più privata di segreti famigliari e gelosie tra clan di samurai del «genere», viene continuamente sorpresa da elementi eccentrici, a cominciare quello di una presenza femminile fantasmagorica che afferma il destino e lo sguardo sul mondo del protagonista – l'attore Raizo Ichikawa, divo molto noto in Giappone – spiazzando la gerarchia di ruoli molto codificata.
SONO QUESTE figure, la madre, la sorella, una sconosciuta a essere eroiche, pronte a esporsi, a morire sul campo utilizzate dagli uomini e da una società che più in generale non permette nessuna fragilità né alcuna distrazione – gli anni Sessanta della ricostruzione post-bellica di quell'ordine sociale a cui poi si ribellarono le invenzioni di un Wakamatsu, anche lui regista di genere, o meglio capace di rendere questo terreno prezioso luogo di sperimentazione e di rivolta.

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