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Cento anni da ribelle

DAVIDE CONTIITALIA/ROMA

«Sono nato il 22 giugno del 1922, qualche mese prima della marcia su Roma. Quindi si può star certi che non vi ho partecipato!». Era così che Rosario Bentivegna iniziava il racconto della sua esperienza di antifascista e partigiano. Salvo concludere che «la marcia su Roma fu un bluff sul piano militare ma un successo sul piano politico». Non mancava certo di intelligenza e ironia il comandante «Paolo» che aveva guidato il Gruppo di Azione Patriottica «Carlo Pisacane» durante i terribili 271 giorni di occupazione nazifascista della città che ha amato e difeso con le armi: Roma.
L’avvento del fascismo in Italia veniva indicato da Bentivegna non come esito inevitabile, quanto piuttosto come colpa storica della classe dirigente rea di aver inventato una risposta di tale carattere reazionario e regressivo di fronte alla grande questione dell’ingresso delle masse nella vita dello Stato. In una formula: l’indispensabile rifondazione su base democratica del patto collettivo e della sovranità popolare all’indomani della tragedia della Grande Guerra del 1914-1918.
A CENTO ANNI dalla sua nascita, e nel decennale della sua scomparsa (2 aprile 2012), la figura di Bentivegna «insiste» nella memoria storica di Roma e del Paese in ragione del suo lungo operato in seno alla Resistenza e del suo impegno in difesa della democrazia repubblicana. La sua traiettoria biografica coincide in larga parte con quei processi che hanno segnato il ’900 italiano ricollocando il Paese dalla parte giusta della Storia grazie alla «scelta» di combattere il regime dittatoriale imposto ed esportato in tutto il mondo attraverso i mezzi della guerra, dello sterminio di massa e del razzismo di Stato.
Il prologo di ciò che sarebbe stato si manifestò il 23 giugno 1941 quando, ad un anno dall’ingresso in guerra di Mussolini al fianco di Hitler, una manifestazione di studenti universitari protestò contro il richiamo obbligatorio alle armi. Le autorità fasciste segnalarono che l’azione faceva capo ad una «combutta sovversiva formata da elementi operai e intellettuali, con le modalità caratteristiche usate dal partito comunista». La repressione della polizia portò a numerosi arresti. Tra questi Antonello Trombadori, Pompilio Molinari, Paolo Bufalini, Roberto Forti, Mario Leporatti e il diciannovenne Rosario Bentivegna. Due anni dopo quel gruppo sarebbe divenuto la dorsale delle formazioni dei Gap del Pci a Roma.
IL CROLLO DEL FASCISMO e gli oltre cinquanta bombardamenti subiti dalla città spinsero Bentivegna alla scelta armata e all’ingresso in quella dimensione valoriale, umana e politica, che fu la Resistenza. Alla guida di uno dei quattro Gap Centrali «Paolo» ed i suoi compagni (tra cui la medaglia d’oro Carla Capponi, che fu sua moglie fino agli anni ’70) diedero corpo a quel conflitto asimmetrico ed «irregolare» che avrebbe riscritto il diritto dei popoli conferendo legittimità alle lotte per la loro autodeterminazione.
REALIZZÒ DECINE DI AZIONI di guerra contro le truppe nazifasciste tanto nel centro di Roma quanto in quelle periferie che divennero l’habitat naturale e protettivo dei ribelli della città. Nella capitale, dopo la fuga del re e dei generali a seguito dell’armistizio, le cellule dei Gap seguirono la parola d’ordine lanciata dagli Alleati: «rendere impossibile la vita all’occupante nazista».
Bentivegna praticò la guerriglia in Italia e all’estero. Incarnò fisicamente il carattere internazionalista della Resistenza combattendo a Roma e poi sulle montagne del reatino (al comando di gruppi partigiani formati da russi), proseguendo la lotta al fascismo e riscattando il nome del nostro Paese nelle fila della Divisione Garibaldi in Jugoslavia dove i «bravi italiani» erano stati «palikuce» (bruciatetti) e criminali di guerra.
NEL DOPOGUERRA Bentivegna fu insignito, dal presidente del Consiglio De Gasperi e da quello della Repubblica Luigi Einaudi, di medaglia d’argento e di bronzo al valor militare. Tuttavia il rapido incedere della Guerra Fredda, che rese la nostra una «democrazia difficile» (perché abitata dalla «questione comunista») e la «continuità dello Stato» (che mantenne ai vertici degli apparati di forza tutto il personale fascista) trasformò i partigiani in un «pericolo» per i governi conservatori della Dc.
Il «processo alla Resistenza» negli anni ’50 portò lui e migliaia di combattenti a subire arresti e procedimenti giudiziari. Incarcerato dalle autorità Alleate già all’indomani della Liberazione di Roma, Bentivegna venne processato e assolto per legittima difesa a seguito dello scontro armato che portò alla morte di un tenente della Guardia di Finanza che gli aveva sparato davanti alla sede de L’Unità dove il gappista faceva vigilanza. Arrestato nuovamente, a causa di una delazione, per detenzione di armi (aveva conservato il suo fucile della guerra partigiana) fu liberato in ragione della amnistia Togliatti. Nel 1964 venne inserito nella lista dei 754 «enucleandi» del «Piano Solo» del generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo. Un’operazione che (se attivata) ne avrebbe determinato l’arresto e la deportazione nella base di Gladio a Capo Marrargiu insieme a dirigenti politici, sindacali e partigiani considerati «sovversivi». Dopo il colpo di Stato in Grecia del 1967 agì in sostegno ai dissidenti antifascisti facendoli espatriare clandestinamente trasportandoli in barca da Corfù e dalla Tessaglia in Italia.
IL SUO LEGAME CON IL PCI è stato profondo e critico. Fu sempre «fiero e orgoglioso» di essere stato un comunista ma ciò non gli impedì di contestare radicalmente le posizioni del partito: dal vincolo con l’Urss (dopo le invasioni di Budapest e Praga) alle venature più evidenti dell’eredità stalinista nello stesso Pci.
Il suo nome resta inscindibilmente legato alla più grande azione di guerra compiuta dalla Resistenza europea in una capitale occupata dalla Wehrmacht: quella del 23 marzo 1944 in via Rasella. Rivendicata sempre con orgoglio nel dibattito pubblico, «io a via Rasella ci sono stato perché ci volevo stare. E ci sono sempre rimasto», e tenacemente difesa (insieme alla sua compagna di vita Patrizia Toraldo di Francia) nelle aule giudiziarie di fronte a chi, tra falsi storici e calunnie ha tentato di associare le responsabilità della strage nazifascista delle Fosse Ardeatine ai partigiani.
Oggi in quel luogo nessuna targa ricorda gli accadimenti del marzo 1944. Così come Roma non ha ancora una via dedicata a Rosario Bentivegna. Nel decennale della sua scomparsa è giunto il tempo che la capitale ricordi uno dei suoi figli migliori. La storia, dal canto suo, ha già riservato a Bentivegna il posto degno che si confà ad un combattente della Libertà.

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