VISIONI

New Orleans, le virtù della mescolanza alle origini di un sound

Il mito della Crescent City, il primo teatro d’opera Usa, il successo di Nick La Rocca e la Preservation Hall
FLAVIANO DE LUCAUSA/NEW ORLEANS

New Orleans e la sua musica sono il prodotto fertile di una interazione culturale portata avanti per secoli. Una lezione di tolleranza e apertura mentale nel profondo sud reazionario. La felice combinazione di una storia unica tra le capitali degli States, ancora oggi molto contraddittoria (nel feroce contrasto tra l’agiatezza della classe media bianca e la precarietà dei sottoproletari neri confinati ai lavori più umili), accarezzata dal turismo nonostante la difficile quotidianità (strade sprofondate dovunque, vasta platea di consumatori di stupefacenti, alto numero di conflitti a fuoco annuali, drappelli di senzatetto e mendicanti). Da poco si è celebrato il tricentenario della fondazione da parte di Jean Baptiste Lemoyne de Bienville, nel 1718, che la chiamò così in onore del duca di Orléans.
QUESTO LUOGO era conosciuto col nome di Bultancha, posto di molte lingue in Choctaw. Passata poi agli spagnoli, tornata ai francesi e venduta, come tutta la Louisiana, nel 1803 agli americani, la metropoli coloniale assimilava cultura spagnola, francese, americana e africana, con reminiscenze dei nativi d’America, dei meticci creoli e dei cajun (discendenti dei francesi, esiliati dall’Acadia, a fine ‘700).
Prima della guerra civile, un rifugio sul Golfo del Messico già famoso per il commercio degli schiavi e le piantagioni di cotone, tabacco e canna da zucchero che permisero di accumulare ricchezze sconsiderate. E richiamarono avventurieri, prostitute, ex-galeotti, pirati e reietti contribuendo al mito della Crescent City, la mezzaluna formata dalle anse del corso d’acqua, in questo territorio di caldo umido tropicale, di travolgenti uragani, di frequenti alluvioni che sommergono le parti emerse (e si infiltrano nel sottosuolo), luogo di bella vita e di piacere (da qui il soprannome di Big Easy) col distretto a luci rosse di Storyville (chiuso nel 1917) e con la prima arena lirica negli States, il Théâtre de l'Opéra costruito nel 1859 e distrutto dal fuoco nel 1919, un meraviglioso simbolo del vecchio mondo, in stile architettonico italiano, situato proprio al termine di Bourbon Street. «E mi vedrai solo camminare alla luce della luna/ La tesa del mio cappello nasconde l'occhio di una bestia/ Ho la faccia di un peccatore ma le mani di un prete/ Oh non vedrai mai la mia ombra né sentirai il suono dei miei piedi/Mentre c'è la luna su Bourbon Street». Ispirandosi alla melodia del notissimo standard jazz Autumn Leaves, Sting si fa incantare dai raggi di luna (e dalla lettura di Intervista col vampiro di Anne Rice) per comporre Moon over Bourbon Street, tributo alla strada che non dorme mai e lascia una scia folgorante nell’aria. La metropoli del diciannovesimo secolo, funestata da alluvioni, incendi, epidemie, già allora aveva sviluppato una cultura musicale vivace e variegata. In numerose sale da ballo pubbliche, orchestre professionali bianche e creole gratificavano i ballerini con valzer, polka, schottisches, quadriglie europee e altre danze spagnole importate dai Caraibi. Le bande di ottoni facevano musica nelle parate festive, ai picnic, alle partenze e arrivi dei vaporetti, ai funerali e in altre occasioni civili e private.
UN MISCUGLIO di sonorità che rigenerava e ricreava le fantasie europee in questa comunità coloniale. Alla fine dell’Ottocento arrivarono gli emigranti italiani, soprattutto del sud, a rimpiazzare gli schiavi emancipati trasferitisi al nord, a Chicago, Philadelphia, Washington. Nell’allora principale porto di transito delle banane di tutto il mondo, si avvicendavano come scaricatori i neri e gli italiani, in larga parte siciliani che diffondevano le marcette delle bande rionali delle Madonie. Proprio uno di loro, Nick La Rocca, uno dei quattro figli dell’agricoltore Girolamo, emigrante di Salaparuta, un lavoro da elettricista e trombettista autodidatta, sempre più coinvolto nei gruppi cittadini, fa parte dell’Original Dixieland Jazz Band, una band di cinque musicisti bianchi, che incide un 78 giri per la Rca Victor, Livery Stable Blues, considerato il primo disco registrato di musica jazz, raggiungendo uno straordinario successo commerciale con oltre 1 milione di copie vendute e con tournée a New York, Chicago e Londra (una vicenda raccontata anche nel film di Michele Cinque Sicily Jass, 2016).
BEN PRESTO i dissapori scardinarono la band e La Rocca rivendicò la primogenitura del jazz, col suo carattere litigioso arrivando a posizioni xenofobe. Anche se quella fusione tra la musica bandistica delle sagre paesane con le percussioni e i tamburi africani era già stata adottata da vari combo. E due formazioni in particolare, le orchestre del trombettista Joe «King» Oliver e del trombonista Edward «Kid» Ory, formate solo da afroamericani, mettevano in subbuglio tutta la cittadina, annunciando a scopo pubblicitario qualche spettacolo e suonando a più non posso motivetti che mandavano in visibilio gli astanti. Altri protagonisti, nel solco di Bolden, furono il clarinettista Sidney Bechet e il pianista/compositore Ferdinand LaMothe, meglio noto come Jelly Roll Morton, portarono questi ritmi nati nelle strade nei saloon e nei raduni collettivi in giro per tutti gli States. Un clima particolare si respira alla Preservation Hall, un’altra tappa imperdibile nel giro dei locali, la storica casa del jazz, un portoncino in St Peter Street, nel French Quarter, dove il reticolato dell’epoca coloniale immette in un vecchio edificio scrostato. Nato come galleria d’arte che negli anni ’50 invitò musicisti d’ogni genere per attirare pubblico fin quando il suonatore di tuba laureato alla Wharton business school, Allan Jaffe, lo prese in gestione con la moglie nel 1961 con l’intento di aiutare i musicisti locali in cattive condizioni economiche (oggi c’è una fondazione benefica e un’etichetta discografica intitolati alla sala di musica dal vivo). Questo stanzone col pavimento in legno, vecchi dischi e vedute d’epoca alle pareti, può ospitare non più di 50 persone a serata, divise tra sedie, banchetti e sedute a terra sui cuscini. Si esibisce la Preservation Hall Jazz Band, con tutto un repertorio tradizionale fatto di brani dixieland, classici swing ed evergreen di New Orleans, trasportandovi immediatamente in un’atmosfera fuori dal tempo, un flash del jazz degli esordi eseguito da alcuni strumentisti di grande bravura come radunati nel salotto di casa, con i fiati pronti ad alzarsi in piedi nei momenti all’unisono, spargendo emozioni palpitanti e rievocando il glorioso passato.
SECONDO molti giornalisti e scrittori, uno dei fattori della centralità della musica fu l’esistenza di Congo Square, uno slargo in aperta campagna dove gli schiavi potevano riunirsi la domenica per suonare i tamburi, ballare in circolo, cantare spiritual e vendere beni. Nelle vicinanze i nativi Houma celebravano il loro raccolto annuale di grano e la consideravano terra sacra. Lì gli anziani africani privati della libertà passavano la loro cultura e la dolente sensibilità alle giovani generazioni attraverso i canti di lavoro, i complessi poliritmi, i ricordi delle esperienze passate. L’esistenza del porto internazionale attrasse persone di etnie e gusti musicali differenti in modo da elaborare una cultura musicale dinamica che combinava ritmi africani e habanera, popolare ragtime e canzoni di chiesa, dolci ballate locali e blues uptempo.
Questo retaggio del continente nero si è sviluppato nelle tradizioni del Mardi Gras e nelle consuetudini della second line (la cosiddetta seconda fila, quelli che seguivano i musicisti o gli attori principali mettendosi a danzare, mimando scenette, partecipando liberamente alla sfilata, spesso semplici passanti o appassionati melomani o studenti di musica che si aggiungono lungo la strada) e di quell’assemblaggio sonoro poi chiamato jazz.
(2 - continua, il primo capitolo è uscito il 14 giugno)

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