VISIONI

Corpi e riferimenti in mutazione trainati dall’invincibile nostalgia

La quarta stagione di «Stranger Things», l’horror vira verso lo splatter
LUIGI ABIUSI

Quanto una serie come Stranger Things regge dal punto di vista della congruenza narrativa ed estetica, e quanto invece il consenso anche della critica, di parte della critica, non sia il frutto della nostalgia – quindi di un comportamento acritico – di tutta una generazione? Se si esclude il filtro nostalgico, restando ad esempio sulla sceneggiatura, su note di regia, di montaggio ecc., bisogna ammettere che questo tipico prodotto postmoderno a tratti funziona anche meglio di certo cinema di genere degli anni 80, che è il suo referente: film spesso sconclusionati, difettosi, ma che portavano addosso i segni, le suggestioni del loro tempo.
TRA I TANTI che si potrebbero citare, Breakfast Club (1985) di John Hughes – il cui fascino è pari a certe lacune di fondo – che del resto costituisce un modello importante per la quarta stagione di Stranger Things in cui i protagonisti sono diventati degli adolescenti sempre più invischiati nelle dinamiche scolastiche: siamo nel 1986. E non sorprenderebbe se nella seconda parte della quarta stagione – disponibile su Netflix dal primo luglio – spuntasse Don't You (Forget About Me) dei Simple Minds che era l'antifona del film di Hughes e sicuramente uno dei brani più rappresentativi di quel decennio.
Poi però, fatta l'analisi obiettiva del tessuto cinematografico della serie, subentra un elemento essenziale, quello della nostalgia a completare il quadro. Si usa, con un po' di imbarazzo, quasi con un senso di colpa per il godimento così immediato offerto dai fratelli Duffer (tra attrattiva della trama e commozione per lo scenario retrò), l'espressione «ben confezionata», il che bene o male dice di strutture di fondo (su cui costruire la confezione), di traiettorie dialettiche e spaziali riscontrabili sotto il repertorio audio-video di Stranger Things.
LA PRIMA stagione – uscita nel 2016 tra lo stupore e il compiacimento più infantile degli ultra-quarantenni, tra i quali chi scrive – era tutto un crepitare plasticoso di interni o quantomeno un cabotaggio dentro il microcosmo di Hawkins, la cittadina in cui s'apre il primo squarcio sul Sottosopra, una dimensione parallela in cui cova il male: mostri melmosi, tentacolari, ossessi. Un riferimento insistito era E.T., e di lì innumerevoli altre citazioni di tutto il cinema e l'immaginario degli anni Ottanta (tra Spielberg e Steven King), ma sempre con un'attenzione particolare per la dimensione domestica, al riparo dell'esterno, del buio.
La bambagia, la penombra di un tinello: un tavolo e dei bambini intenti a giocare a Dungeos & Dragons, cioè a dare sfogo alla propria fantasia, che è quello che fanno alla fine i fratelli Duffer con il loro giocattolo di plastica dipinta e poi smaltata perché non perda il colore: Stranger Things appunto.
ORA, IN QUESTA quarta stagione, a questo gusto infantile per il rifugio subentra la necessità dell'evasione: famiglie trasferitesi, ragazzi in attesa di migrare verso le università, adulti in trasferta rocambolesca tra l'Alaska e la Russia più orientale. Anche il Club dei giocatori di Dungeos & Dragons sembra perdere i pezzi, così come il suo scenario domestico, ora più sfatto, decadente di quanto non fosse il tinello tendato, tappezzato di tre anni prima. A ciò corrisponde una modifica dei modelli horror, che prima erano Poltergeist o La Cosa, e ora accelerano verso lo splatter, guardando a Nightmare, La Casa, Hellraiser.
Insomma un orrore più esplicito, invasivo, carnale, in sintonia con la crescita dei protagonisti, con la scoperta inquieta dei propri corpi in modificazione. Dentro questo orrore, uno squarcio luminoso è aperto dall'immaginazione, dal segno espressivo, la musica soprattutto, come era già accaduto per Never Ending Story di Limahl alla fine della terza stagione. Qui sono due brani, due capolavori dell'85: You Spin Me Round (Like a Record) dei Dead or Alive e soprattutto Running Up That Hill di Kate Bush, tornato in classifica dopo tanti anni, sia nel Regno Unito che negli Usa proprio grazie al successo di Stranger Things, e per la potenza inalienabile del ricordo. Viene in mente Ivo nella Voce della luna quando dice: «come mi piace ricordare, più che vivere, del resto che differenza fa?».

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