INTERNAZIONALE

Tutti i golpisti di Trump alla sbarra. Ma non sarà un «Watergate»

Al via le udienze pubbliche della Commissione d’inchiesta sull’assalto al Campidoglio
LUCA CELADAusa/washington

Le udienze sono state programmate per coincidere con la prima serata dei network nazionali, visibili al massimo numero di persone. Dopo lunghi mesi di lavori a porte chiuse la commissione sui fatti del 6 gennaio aprirà uno spiraglio su alcuni degli elementi emersi dagli oltre mille testimoni sentiti ad oggi sui retroscena dell’assalto al Campidoglio che un anno e mezzo fa portò la «democrazia faro» dell’Occidente sull’orlo del precipizio.
LO SCALPORE per l’insurrezione pilotata costata la vita a cinque persone (altri quattro agenti della Capitol Police si sarebbero suicidati nelle settimane successive) sembrò penetrare per la prima volta anche lo zoccolo duro dell’establishment repubblicano che aveva sempre fatto quadrato attorno a Trump. Il fedele senatore Lindsay Graham si dichiarò schifato. Il potente speaker del Senato Mitch McConnell disse che si era passata infine ogni misura.
Eppure molti – che pure si erano rifugiati sotto gli scranni prima di venire evacuati dall’aula parlamentare – rimasero allineati con l’ex presidente che per la prima volta nella storia della repubblica aveva tentato di sovvertire una legittima elezione e impedire il passaggio pacifico delle consegne.
Poche settimane dopo, i repubblicani furono già pronti a boicottare la commissione bipartisan di inchiesta. La presidente della Camera Nancy Pelosi fu costretta a ripiegare su una commissione ad hoc con due soli membri repubblicani – subito sconfessati dal loro partito e destinati a pagare con la propria carriera politica quell’adesione.
I LAVORI della commissione sono proseguiti certosini per mesi. Malgrado molti dei protagonisti, per lo più membri dell’amministrazione Trump abbiano semplicemente rifiutato di comparire, senza peraltro subire conseguenze (una rara eccezione l’arresto questa settimana dell’ex consigliere Peter Navarro per oltraggio al Congresso).
ORA CHE GLI ATTI della commissione diventeranno pubblici, saranno prevedibilmente ricchi di particolari sulla corruzione, la connivenza e l’avallo (se non organizzazione attiva) dell’insurrezione al culmine di un progetto eversivo mirato a mantenere alla Casa bianca un presidente illegittimo. Un dossier che promette di inchiodare alle responsabilità tutti gli uomini del presidente. È molto improbabile tuttavia che rivelazioni anche clamorose possano provocare un «momento Watergate» come quello indotto dal lavoro della commissione che nel 1973 ipnotizzò il paese con dirette che contribuirono alle dimissioni di Richard Nixon. Più probabile che servano proprio a dare la misura del mutamento «epistemico» di una nazione polarizzata oltre ogni logica indagine.
DOPOTUTTO se nel 1973 il partito di Nixon avesse negato l’evidenza delle malefatte e ci fosse stata un emittente disposta a denunciare senza sosta un «complotto» per danneggiare il presidente, amplificato nella socialsfera, c’è da chiedersi se l’esito di Watergate sarebbe stato diverso. E nel caso di Trump le trasgressioni sono già note: la denuncia preventiva dei brogli prima del voto, le oltre 60 cause penali immancabilmente respinte, le minacce telefonate a funzionari elettorali (come Brad Raffensperger in Georgia a cui chiese da «far saltare fuori» gli 11mila e rotti voti necessari a fargli vincere lo stato). E per ultimo il comizio in cui ha scagliato la folla contro il parlamento. Ancora oggi il 75% dei repubblicani si dice convinto della big lie, che Biden abbia «rubato le lezioni».
PREVEDIBILMENTE il Gop ha inquadrato la commissione nella narrazione della «caccia alle streghe» imbastita dei democratici a scopi politici. La Fox non trasmetterà la diretta delle udienze ma farà «contro informazione», quella chiesta da Steve Bannon che su Twitter chiama all’«adunata dei patrioti». Le audizioni rischiano di essere l’ultima tappa di una spaccatura ormai insanabile e di subire lo stesso destino dei due tentativi di impeachment neutralizzati dal caos disinformatico e dall’ostruzionismo repubblicano. L’insurrezione è in fondo stato solo un episodio eclatante di un progetto eversivo sposato da un partito che senza maggioranza popolare punta ad altri metodi per consolidare il potere.
QUEL PROGETTO rimane attivo oggi sui binari paralleli della disinformazione e della sovversione elettorale. Perseguita con leggi atte a inibire il voto di segmenti democratici di elettorato e aumentare la discrezione di governi locali (molti controllati dal Gop) sullo scrutinio dei voti. Ed è una certezza l’uso della strategia già messa in campo nel 2021 di denunce seriali di brogli, particolarmente nella manciata di stati contesi che potranno decidere le elezioni. Video trapelati la scorsa settimana in Michigan hanno rivelato che il comitato centrale Gop intende piazzare funzionari «fedeli» come scrutinatori con istruzioni di denunciare brogli a «un esercito di avvocati».
L’idea è fare ricorsi sufficienti a paralizzare lo spoglio in attesa che intervengano governatori di stati «amici», tribunali federali e se necessario la Corte suprema blindata dai conservatori. Tutto stavolta con la minaccia implicita della forza. Non vi sono in tale scenario garanti istituzionali o commissioni che tengano – nei prossimi due anni la democrazia se la giocano gli americani.

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