VISIONI

Voglio raccontare gli esclusi guardando negli occhi la storia

CRISTINA PICCINO etiopia/usa

Etiope di nascita, figlio di un drammaturgo e storico, in America - vive a Washington - dagli anni degli studi alla Ucla di Los Angeles dove è tra i protagonisti di quella L.A. Rebellion di registi che è accanto alle rivolte nere nei ghetti e che nel documentarle afferma un immaginario radicale, Haile Gerima esprime nel suo cinema questa duplice dimensione del vissuto. Narratore del panafricanismo e delle violenze nella società americana, di marginalità e conflitto (razzista) di classe, delle lotte di liberazione coloniali e post a cominciare da quella italiana e fascista nel suo Paese, l’Etiopia, Gerima fa della sua materia una continua invenzione formale spiazzante, mai addomesticata, che cerca di sollevare consapevolezza in ogni sguardo.
Al regista il Museo del cinema di Torino ha reso omaggio con la retrospettiva (13 titoli) Visioni dal rimosso. Lo sguardo cinematografico sul colonialismo italiano (a cura di Daniela Ricci) nel corso della quale Gerima ha presentato un work in progress di un'ora del suo prossimo film, Black Lions, Roman Wolves/The Children of Adwa, una storia dell’Etiopia a partire dall’invasione italiana del 1935 e dal colonialismo fascista. Ci parliamo su zoom.
Il tuo nuovo film, «Black Lions, Roman Wolves/The Children of Adwa» è stato pensato come il seguito di «Adwa, an African Victory» (1999) in cui raccontavi la battaglia di Adwa nel 1896 - e la vittoria dell'imperatore Menelik contro gli italiani divenuta un simbolo per il movimento panafricano. Su cosa lavora questo nuovo capitolo?
Al centro c'è la guerra contro l'occupazione fascista nel 1935 che diviene il punto di partenza per ripercorrere la storia dell'Etiopia da una prospettiva etiope. Ho lavorato sul libro di mio padre, a cui dedico il film, che ha documentato tutti i crimini di guerra commessi dai fascisti di Badoglio e Graziani in Etiopia. Selassié nel 1935 venne sconfitto quasi subito ma gli italiani occuparono solo le città principali del Paese, Addis Abeba, Gondar, Gimma, Dessiè mentre all'interno la resistenza ha continuato a combattere mettendoli spesso in difficoltà - cosa a cui reagirono con una grande ferocia. Il film è diviso in cinque parti, la prima si chiama appunto The Scar of Adwa, La ferita di Adwa, e da lì attraverso testimonianze, materiali d'archivio, le voci di sopravvissuti, di storici etiopi, di soldati ripercorro il trauma dell'occupazione e della guerra: l'uso dei gas contro i civili da parte dei fascisti, la Guerrilla war italiana di cui molti non sanno nulla, che continua fino al '43 dando ai fascisti un'occasione per ristabilire il loro potere, quelli che dall'interno la sostengono, la vittoria non solo sull'Italia ma anche sulla Gran Bretagna. Ho utilizzato gli archivi del British Pathé e di Gaumont, e sto cercando di avere i materiali dal Luce con qualche difficoltà. Il mio sogno è inserire il girato originale. Il film è finito, aspetto appunto dall'Italia gli archivi sull'occupazione. Ogni volta che la burocrazia mi nega delle immagini in cui si vede la mia gente bombardata è per me una forma di violenza silente che mi fa male. Avevo cercato anche la Rai ma dopo avermi fatto attendere con un certo paternalismo hanno detto che non erano interessati.
Negli ultimi anni in America la questione dell'eguaglianza e delle pari opportunità per gli afroamericani è stata messa al centro di un discorso che da una parte investe Hollywood - penso alla campagna #OscarSoWhite- dall'altra si è imposta col Black Lives Matter. Cosa ne pensi?
Le rivendicazioni dell'Academy e di Hollywood non hanno portato a nulla, la mia vita è sempre la stessa, sono l'ennesimo tentativo della middle class americana bianca di lavarsi la coscienza dal senso di colpa; alla fine sono sempre loro che decidono. Per quanto riguarda Black Lives Matter è molto importante come fenomeno sociale ma ancora una volta non produce un vero cambiamento per i poveri. La middle class nera tende a creare momenti di grande drammatizzazione con cui costruire delle buone opportunità per una mobilità di classe verticale. In America come in Africa sfrutta le battaglie dalla gente comune e povera: pensa alla questione degli homeless che negli Usa è sempre più grave, o alla brutalità della polizia che è sempre esistita – uno dei miei film, Bush Mama (1979) racconta proprio questo. E quando i neri homeless e marginalizzati creano le circostante di fallimento del capitalismo in America, la middle class arriva e cerca delle negoziazioni sociali, economiche, politiche per sé stessa. Black Lives Matter è un movimento borghese, nato a Hollywood, il mio lavoro mette invece al centro gli esclusi, coloro che sono attualmente le vittime della violenza capitalista. La middle class nera non ha nessuno problema rispetto al capitalismo, anzi, il discorso del nostro tempo gli permette un maggiore accesso ai benefici: artisti, musicisti, rapper sono sempre più dentro al sistema che oggi ha bisogno della Black fashion o della Black avantgarde. Ecco perché come osservatore della realtà e come filmmaker sono critico verso questo movimento, mi identifico coi bambini yemeniti bombardati ogni giorno nel disinteresse mondiale ma non con loro. Ho aspettato tutta la mia vita Obama, il primo presidente nero però le contraddizioni del Black Nationalism sono diventate più evidenti che in qualsiasi altro momento della storia c on la sua presidenza e poi con il Black Lives Matter.
Gli Stati uniti del dopo Trump appaiono un Paese diviso, nel quale le tensioni sono esasperate in una contrapposizione nuova. Dove si pongono gli afroamericani in questo?
C'è una parte di conservatori neri che hanno votato per Biden, rifiutando le proposte di un socialista come Bernie Sanders si sono rivolti verso qualcuno che rappresenta il sistema razzista della supremazia americana bianca. Ciò dimostra che anche gli oppressi sono orientati a una politica da oppressori perché vogliono essere come i bianchi al potere. È quello di cui parlano Fanon o Dubois nelle loro riflessioni: la nozione di razza viene usata per scopi reazionari, e Biden ne è l'esempio perfetto che è stato preparato dall'epoca di Obama. Questo Black Power conservatore non si fidava di Sanders per ragioni razziste o ideologiche - pure se affrontava temi come l'istruzione, la sanità pubblica, gli alloggi – e si è rivolto a Biden mostrando dove finisce l'idea del Black Nationalism senza una prospettiva di classe.
Il colonialismo e le strategie di liberazione post-coloniale a cui rimanda la tua ricerca continuano a essere una chiave fondamentale per la lettura della contemporaneità.
Oggi più che mai, i problemi etnici o religiosi alla base dei conflitti in Etiopia sono ancora il risultato del colonialismo fascista. L'Africa mantiene l'eredità del colonialismo, il potere in Etiopia della giunta militare usava la mappa di Mussolini che la divideva in diversi stati «etnici» e gli italiani ne iniziarono la frammentazione perché sapevano che era il solo modo per dominarla. In Black Lions, Roman Wolves/The Children of Adwa si sentono le voci dei leader italiani come Graziani che dicono di usare queste divisioni etniche per uccidere i nobili etiopi, chi parla in aramaico. Analizzare il potere coloniale e i suoi lasciti permette di leggere il presente. Anche se l'Etiopia è il primo luogo in cui gli italiani hanno utilizzato i gas uccidendo migliaia di esseri umani, ogni volta che vengo in Italia e vedono dal passaporto che sono etiope mi dicono: «Non siamo come i francesi, abbiamo costruito strade, scuole...» È a questa narrazione del colonialismo fabbricata dalle produzioni hollywoodiane che si oppone la mia ricerca, vorrei contribuire a una diversa discussione in cui anche gli italiani sono coinvolti, che mette in luce le responsabilità storiche. Ho sacrificato trent'anni della mia vita, era molto più facile fare una pornografia hollywoodiana, ma credo che la storia si deve affrontare per andare avanti.
Le nuove generazioni del cinema africano cominciano a sfuggire alla rappresentazione univoca e un po' «vittimista» che spesso cerca l'occidente rispetto a altre zone del mondo.
È una visione che basa sul senso di colpa, per gli europei, e anche per i registi in Africa che preferiscono scelte consolatorie ai temi del colonialismo. Si parla dei migranti ma nulla può avere una forza se non prendi la storia per il collo. Hollywood e la lingua inglese dopo la seconda guerra mondiale hanno intossicato il cinema, è anche questa una forma di colonialismo. Solo spostandosi da qui si potranno produrre dei cambiamenti.

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