COMMENTO

La legge elettorale nella sfida delle coalizioni

Elezioni
ANTONIO FLORIDIAITALIA

Non è una novità, ma colpisce l’accanimento con cui la cosiddetta “grande stampa” si dedica alla denigrazione del M5S. Ed emerge è anche una forte pressione sul Pd e su Letta perché abbandonino l’idea di un’alleanza con Conte. Qualcuno si è spinto finanche ad attribuire un fantasioso 15% all’area calendian-renziana, in modo che il Pd possa fare a meno del M5S. O persino a ipotizzare un futuro governo Meloni-Letta. Segni dell’impazzimento della politica, e dello scadimento del dibattito giornalistico.
Indubbiamente Conte e il suo “partito” sono in difficoltà: il movimento grillino sconta il suo peccato originario, il fatto cioè di aver teorizzato la natura di non-partito, l’affidamento plebiscitario al “garante”, la casualità della selezione del personale politico, l’assenza di una vera identità politico-culturale condivisa, e l’assenza di reali procedure democratiche interne. E tuttavia, intonare il de profundis appare alquanto strumentale. I sondaggi continuano a dare al M5S una quota elettorale del tutto rispettabile, tra il 12 e il 15%. Sarà poco, sarà tanto, fatto sta che un partito ben altrimenti “strutturato” (si fa per dire) come il Pd, non è che goda di tanta migliore salute, inchiodato oramai da anni ad una percentuale che oscilla tra il 20 e il 22%.
Peraltro, le valutazioni sul “declino” del M5S ignorano il fatto che una grossa fetta degli elettori che contribuirono al 33% del 2018, quella che proveniva da una storia elettorale di destra, è tornata alle origini già nel 2019; e che gli attuali potenziali elettori del M5S sono in gran parte ex-elettori di sinistra, che non mi pare possano trovare molte valide ragioni per tornare a votare il Pd.
Naturalmente il prossimo 12 giugno, nelle elezioni di molti capoluoghi di provincia, saranno messe alla prova numerose alleanze Pd-M5S, per la prima volta presenti in modo diffuso. Sarà importante valutare l’esito di queste coalizioni larghe. Ma è del tutto scontato, comunque, che il risultato delle liste del M5S potrà essere, in vari casi, deludente rispetto alle vette toccate nel 2018, e si può già scommettere che sarà enfatizzato con malcelata soddisfazione. Non sarebbero tuttavia una gran novità le deboli prestazioni del M5S nelle elezioni locali: con alcune eccezioni, è sempre accaduto, anche nei tempi migliori.
Ma ci sono ragioni di fondo che spingono a sperare che Letta resista alle “sirene” di una rottura con il M5S: poiché sembra oramai improbabile che si riesca a fare una riforma elettorale in senso autenticamente proporzionale, incitare il Pd a “rompere” con Conte equivale a suggerire che il Pd e lo schieramento progressista semplicemente abbandonino il campo, senza nemmeno iniziare la partita. Beninteso, se il centrodestra esprime una maggioranza nel paese, è giusto che governi; ma non è scritto da nessuna parte che questo accada con una super-maggioranza parlamentare.
E’ questo il rischio concreto a cui ci espone una legge assurda come il Rosatellum, che introduce pericolosi elementi di aleatorietà nella competizione. E qui occorre ricordare alcuni dati. Nel 2018, lo squilibrio tra percentuale dei voti e percentuale dei seggi dei tre maggiori schieramenti risultò alla fine piuttosto contenuto: una leggera sovrarappresentazione per il Centrodestra e il M5s, una leggera sottorappresentazione per il Pd, una netta penalizzazione per Leu. Ma tutto questo accadde per puro caso, per un meccanismo di compensazione territoriale: la destra vinse nei collegi del Nord, il M5S stravinse in tutti quelli del Sud, il Pd “si salvò” solo, parzialmente, in Toscana ed in Emilia.
Ma cosa può accadere se ai nastri di partenza si presenta, da un lato, uno schieramento che, nella peggiore delle ipotesi, parte dal 40% e, dall’altro lato abbiamo solo spezzoni divisi, il principale dei quali forse a stento potrà raggiungere, nella migliore delle ipotesi, il 30% dei voti? E cosa accadrà se questi rapporti di forza si riproducessero in modo omogeneo in tutti i nuovi abnormi 146 collegi cosiddetti uninominali (un’assurdità definirli tali: alla Camera la media degli abitanti si aggira intorno ai 400 mila, al Senato oltre i 900 mila!)?
Ciascuno può fare facilmente i conti, considerando anche i 245 seggi proporzionali: lo schieramento che vincesse in tutti o quasi i collegi e che ottenesse il 45% dei voti al proporzionale, non solo otterrebbe una super-maggioranza di governo, ma potrebbe estenderla fino a toccare quella quota 252, che costituisce la soglia dei due terzi per possibili modifiche costituzionali che non passino dal referendum.
Ecco perché è folle ed irresponsabile questa campagna per demolire il M5S e mettere in difficoltà la linea di Letta sul “campo largo”: qualcuno non capisce, o meglio finge di non capire. Se gli italiani vorranno che governi Giorgia Meloni, non se ne potrà che prenderne atto: ma perché arrendersi in partenza, prima ancora di aprire uno scontro politico che, con l’attuale volatilità elettorale, potrebbe anche dare esiti imprevedibili?
La verità è che, in cuor loro e a denti stretti, molti ammettono di essere atterriti dall’idea di votare con questa legge, che costringe a coalizioni pre-elettorali insostenibili e ingestibili, destinate subito ad infrangersi dopo il voto, (si pensi solo alla sarabanda che si aprirà per concordare le candidature comuni nei collegi, con il 37% dei posti in meno da distribuire); ma spesso non hanno il coraggio di dirlo apertamente, in questo anche frenati dalla sconcertante pigrizia intellettuale con cui sulla stampa si continua a discettare di “proporzionale” e di “maggioritario”.
L’unica veramente interessata a mantenere lo status quo è Meloni, e lo si capisce: ma tutti gli altri, compresa la Lega, non avrebbero tutto l’interesse a presentarsi agli elettori con un proprio profilo autonomo? Insomma, c’è poco da sperare, ma dopo le prossime elezioni forse si aprirà l’ultima finestra di opportunità per una legge elettorale quanto meno più sensata di quella attuale.

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