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Ola Bini, un caso anomalo

DAVIDE MATRONEECUADOR/Quito

Il caso Julian Assange è tornato alla ribalta lo scorso 20 aprile quando le autorità giudiziarie britanniche hanno concesso il via libera all’estradizione del giornalista australiano verso gli Stati Uniti. Il suo è fra i più controversi casi della giustizia contemporanea e coinvolge diverse persone «intrappolate» in una persecuzione giudiziaria e mediatica senza precedenti: chi ha lavorato con WikiLeaks e/o è amico di Assange è infatti sottoposto a pressioni di ogni genere. Tra questi, c’è l’informatico svedese Ola Bini che vive in Ecuador dal 2013 e si definisce un difensore del software libero e della privacy.
Bini e Assange sono amici da lungo tempo e si sono incontrati almeno dieci volte all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, durante l’esilio del giornalista, dal 2012 al 2019. La storia giudiziaria di entrambi è profondamente intrecciata. Nello stesso giorno, ossia l’11 aprile del 2019, in cui il governo di Lenín Moreno ha negato l’asilo politico ad Assange (che poi sarà arrestato in Inghilterra), Ola Bini finisce detenuto a Quito.
Le autorità ecuadoregne hanno perquisito la sede del Centro di autonomia digitale (Cad) diretto da Ola Bini, a Quito. Il Cad è un’organizzazione senza fine di lucro fondata nel 2017 nella città di São Paulo in Brasile con l’obiettivo di sviluppare strumenti per la protezione della privacy per utenti del mondo della cibernetica. Nel 2019 venne aperta una sede nella capitale dell’Ecuador e Bini ne perse le redini. Ad aiutarci a sbrogliare la matassa, è il giornalista ecuadoregno, Diego Cazar Baquero, al timone della rivista digitale La Barra Espaciadora, che da anni si interessa al caso.
Cosa sta succedendo nuovamente all’informatico Bini?
Seguo la sua storia giudiziaria sin dall’inizio e sto scrivendo un libro. La sua storia può riassumersi in un processo di politicizzazione della giustizia dal momento dell’espulsione di Julian Assange dall’ambasciata dell’Ecuador, a Londra. L’allora governo di Lenín Moreno approfittò della situazione, attraverso la ministra degli interni María Paula Romo, per allontanare Assange e poi far arrestare il cittadino e programmatore svedese Ola Bini, associandolo al primo per la loro amicizia. Alle 10 dell’11 aprile del 2019, la ministra Romo durante una conferenza stampa dichiarò: «Da vari anni vive in Ecuador uno dei membri chiave dell’organizzazione WikiLeaks, una persona molto vicina a Julian Assange. Abbiamo prove sufficienti che abbia collaborato in tentativi di destabilizzazione contro il governo. Inoltre, abbiamo dati ed ubicazione che verranno consegnati alla magistratura di due hacker russi che vivono in Ecuador».
Durante l’incontro, la ministra non nominò mai Bini, tuttavia gli agenti della polizia erano tutti indirizzati verso il programmatore svedese che intanto si stava dirigendo all’aeroporto di Quito (doveva andare in Giappone per un allenamento di arti marziali). La sua detenzione - che scattò quel giorno stesso - non fu sostanziata da nessun ordine giudiziario. Di qui in avanti, cominciarono una serie di irregolarità. Uno degli elementi principali controversi è stata una chiamata anonima al «1800 delitto» (servizio pubblico della polizia dell’Ecuador) in cui si dichiarava che l’hacker russo Ola Bini - menzionato nella conferenza stampa dalla ministra Paula Romo - stava scappando dal paese. Tutto questo era parte di una grande menzogna e assai incongruente. La ministra non aveva mai nominato Ola Bini, tanto meno detto che fosse in fuga. In più, la registrazione di quella telefonata è scomparsa: le autorità della polizia hanno dichiarato che i registratori si erano danneggiati proprio in quel momento della giornata. A questo si aggiunse il cambiamento dei capi d’imputazione a Bini. Dopo essere stato accusato per aver attaccato un sistema informatico, nel giro di quattro mesi si riformulò tutto: accesso non consentito al sistema di comunicazione Cnt (Corporazione nazionale di telecomunicazioni).
Con questa accusa cominciò la prima udienza del processo nel mese di gennaio di quest’anno, cioè un anno e otto mesi dopo l’arresto. Da allora, si è registrata un’interruzione (la seconda udienza era prevista a metà maggio). Ola Bini, a tal proposito, ha confidato alla Cnn spagnola che «tutto è stato fin qui molto frustrante. È già trascorso troppo tempo. Questo ritardo dimostra che il governo ha avuto paura di andare avanti in quanto non ha nessuna prova reale e di nessun tipo contro di me».
Quali sono le prove dell’accusa?
In quella prima udienza si presentarono le prove della magistratura - che non provavano nulla, realmente. Si mostrarono alcune foto dell’aeroporto come se fosse il luogo del fatto. Inoltre, si è cominciato un processo giudiziario contro una persona senza che ci fossero prove concrete e ciò rappresenta una violazione del giusto processo. Per andare ancora più a fondo, la prova che ha dato origine al caso giudiziario - la chiamata telefonica - non esiste. Dopo tre anni, il processo continua senza la presenza di «fatti». Ora la decisione resterà al Tribunale che emetterà una sentenza. In definitiva, si vuole accusare Ola Bini di un delitto informatico con una prova documentale non informatica, bensì una fotografia. L’avvocato della sua difesa ha affermato anche che non c’è nessuna verifica da parte del governo e delle autorità dell’Ecuador che stabilisca una relazione criminale tra Ola Bini e Julian Assange.
Qual è stata la reazione rispetto al caso?
Oltre cento organizzazioni a livello internazionale hanno manifestato la loro contrarietà contro le irregolarità del processo, tra queste la Cidh (Commissione interamericana dei diritti umani) guidata dall’avvocato colombiano Pedro Vaca, l’Ufficio del relatore speciale per la Libertà d’espressione dell’Onu e dell’Oea (Organizzazione degli stati americani), l’organizzazione spagnola Electronic Frontier Fondation, l’Organizzazione statunitense Accessnow e Amnesty International, tra le altre. Lo stesso governo svedese, sebbene sia stato tiepido fino ad adesso, ha inviato una serie di comunicati sottoponendoli all’attenzione del ministro degli esteri dell’Ecuador: la richiesta è che si rispetti il giusto processo del caso.

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