VISIONI

«Frère et sœur», segrete geometrie d’odio famigliare

I personaggi egotici, l’autofinzione, il riavvicinamento nella morte
CRISTINA PICCINOfrancia/cannes

Alice e Louis si odiano. Sono sorella e fratello ma lo stesso spazio sia esso famigliare che pubblico o amicale non è possibile per entrambi, l'una esclude l'altro e viceversa. La ragione non c'è, non è evidente, non si tratta sicuramente di questioni di eredità o simili, eppure quest'odio è tenace, violento, doloroso per chi li circonda e per loro naturalmente.
In sé potrebbe non essere così strano, quante volte accade che ci si odi in famiglia o che ci si ignori in apparenza senza un motivo o una spiegazione se non qualcosa che si perde nel tempo, nei passaggi dell'infanzia e dell'età adulta, tra piccoli e invisibili soprusi, in una gelosia dell'apparire nell'affetto dei genitori o degli amici, in qualcosa che pian piano perde di senso ma resta lì, intrecciato alle cose della vita, nutrito dai nuovi dolori, dalle proprie inadeguatezze, da una nostalgia rabbiosa per un'epoca lontana. Cosa è allora che rende «straordinario» l'odio tra Alice e Louis, lei attrice molto amata di teatro, lui scrittore di successo che nei suoi romanzi la ferisce con un astio crescente? Un mistero le cui tracce vengono disseminate lungo il cammino.
«FRÈRE ET SOEUR» - presentato in concorso - inizia con un funerale, quello del bimbo di Louis, che urlando mette alla porta la sorella Alice e suo marito, un tempo il suo migliore amico, e si chiude con un altro funerale - quello dei loro genitori che sarà un nuovo punto di partenza verso una diversa mitologia non più famigliare delle esistenze di entrambi, una possibile liberazione grazie alla quale (forse) impareranno a uscire dai reciproci ego e a guardare il mondo. E se fosse proprio questa incapacità la ragione dell'odio? Egotici i personaggi di Arnaud Desplechin lo sono spesso, e anche intrappolati nelle loro nevrosi, in quel paesaggio attraversato da fantasmi, da emozioni in cui ne risuonano altre lontane, rammenti di memorie che rimbalzano in una storia che li unisce. Loro malgrado. Li ritroviamo qui in quello stesso orizzonte un po' claustrofobico degli interni famigliari che costruiscono la sua poetica, e di Roubaix, la città in cui il regista è nato. Dove echeggiano altri film e ritornano i loro protagonisti - Marion Cotillard che era già in Comment je me suis disputé (ma vie sexuelle), 1996 e Les fantomes d'Ismael (2006) e Melvil Poupaud l'Abel di Un Conte de Noel (2008) in una autofinzione che a ogni nuovo capitolo sembra raccogliere e ampliare le ossessioni e i vissuti del regista e con lui dei suoi personaggi, farlo volare sulla sua cittadina/mondo come Louis quando fuma l'oppio: l'ebraismo trasfigurato di un cattolico di Roubaix, lo stesso che vive Louis o gli interrogativi sui limiti dell'artista nel maneggiare la materia delle esperienze altrui. Lo scontro tra maschile e femminile – era la coppia separata di Rois et Reine – che si fa specchio o controcampo come l'odio di un amore, perché i due mettendo in atto l'allontanamento continuano a essere legati.
ECCO DI NUOVO i Vuillard già travati in altri film di Desplechin, se non proprio gli stessi una loro variazione col coro che circonda i protagonisti, gli anziani genitori, il fratello più giovane stritolato dalla rottura - e dagli egoismi dei maggiori - il figlio di Alice e suo marito, la moglie di Louis che si professa libera ma subisce anche lei questo «gioco», la costrizione a scegliere da che parte stare, a inventare traiettorie di equilibri impossibili.
È il caso che scompiglia di nuovo queste geometrie, un incidente che travolge gli anziani genitori: i giorni in cui entrambi pur sopravvissuti sembrano invece andare solo verso la morte divengono anche quelli del confronto tra il fratello e la sorella, due adulti feriti, lei che divora psicofarmaci, lui che beve e fuma oppio, e si chiude nell'appartamento vuoto dei genitori dove sono cresciuti in una oscillazione tra passato e presente, tra i fantasmi di sé e di tutti coloro che appaiono dalle foto dell'album famigliare.
«TI ODIO» gli aveva detto Alice (Cotillard) una sera alla presentazione del suo libro, il primo successo per Louis (Poupaud) fino a lì era lei quella «famosa», attrice amatissima dalla madre anche se quel mestiere lo giudicava indecente. E poi? La dichiarazione di odio era stata con un sorriso, lui l'aveva accettata.
Nella turbolenza della relazione i due hanno poi inventato altre vite: lui si è ritirato in un luogo remoto con la moglie (Golshifteh Farahani), lei sul palcoscenico dove anche i traumi sembrano non toccarla. In quell'attesa lui si confida con l'amico psichiatra (Patrice Timsit), lei con una giovanissima sconosciuta ammiratrice, Lucia (Cosmina Stratan), una ragazza rumena che l'ascolta in silenzio e viene a prenderla dopo ogni replica del suo nuovo spettacolo, Gente di Dublino.
Il passaggio cruciale nelle loro esistenze, la perdita dei genitori, segna la fine per sempre dell'infanzia, della condizione di «figli» - sono orfano dice il fratello minore - come si incastra col loro odio? Può ancora avere un senso, anche nella propria rappresentazione? Il nuovo capitolo è dunque quello di un'età della «riconciliazione» per la quale Desplechin dispiega una messinscena sontuosa, elegante e insieme millimetrata, che filtra nella distanza narrativa i distanza la suspense emozionale, che entra nell'intimità dei due protagonisti lasciandola al tempo stesso sospesa. Era amore, allora? Attrazione, esclusività, gelosia, il mistero? «Avevi l'originale e hai sposato la copia» dice Louis alla sorella.
Ciascuno farà le sue scelte, ciascuno troverà una possibile via, il tempo del passato a si è trasformato in altro, il presente è capace di accogliere il mondo, il resto sarà qualcosa da inventare.

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