VISIONI

Antonina, sola nella Russia uguale a se stessa

L’amore folle per il compositore, l’omosessualità negata, il machismo e l’intolleranza con echi del presente
CRISTINA PICCINOfrancia/cannes

Le informazioni su Antonina Miliukova non sono molte, sempre connesse al suo famoso marito, Pyotr Ilyich Tchaikovsky e al tremendo matrimonio che li ha uniti. Di lei le biografie riportano l'infanzia infelice, figlia più piccola che la madre tenne con sé dopo la separazione, famiglia di nobili ma poveri, cresciuta tra le liti e le continue vessazioni materne fino alla passione fou per il compositore che sposò nonostante le resistenze dell'uomo, omosessuale e fieramente attaccato alla sua solitudine - in molti pensano che abbia accettato lo slancio assoluto della ragazza per convenienza, un matrimonio era infatti la soluzione migliore con cui mettere a tacere le voci sulle sue relazioni coi ragazzi più giovani, allievi e non, pericolose nella Russia zarista non certo più indulgente di quella di oggi.
MA SE SI GUARDA oltre la follia e la tristezza di Antonina che dopo la separazione finì in miseria dentro un manicomio, perdendo i tre figli, morti piccolini in orfanotrofio, che aveva avuto dall'amante avvocato, povero pure lui e malandato, la sua esistenza ci dice qualcosa di uno «spazio delle donne» - parafrasando il bellissimo libro di Daniela Brogi (Einaudi) - condannato all'invisibilità. Chi era infatti quella giovanissima ragazza se non una burla di cattivo gusto agli occhi degli ambienti intellettuali un po' ribelli, o della «corte» del marito - amici, amanti - estasiati dal genio perché dai suoi raggi è bello essere bruciati? Niente, nessuno, un fastidio, un errore. È su questa storia ottocentesca ma fuori dal tempo che lavora Kirill Serebrennikov nel suo nuovo film presentato ieri in concorso – in Italia uscirà con I Wonder – e che finalmente lo vede sulle marches e sul tappeto rosso ad accompagnarlo, negli anni infatti il regista era rimasto agli arresti domiciliari e non poteva lasciare la Russia per un'accusa di frode – sui finanziamenti al suo teatro – che era più una persecuzione contro una figura della cultura critica, schierata col movimento Lgbtq+ che il regime di Putin colpisce ferocemente. Non era qui né quando venne presentato il magnifico Summer (Leto, 2018) né lo scorso anno per Petrov flou – sempre in competizione; al suo posto c'era una sedia col suo nome accanto a quella di altri artisti imprigionati senza ragione, uno tra tutti in Iran Jafar Panahi.
SEREBRENNIKOV ha lasciato la Russia e vive a Berlino - «restare lì mi dava l'impressione di partecipare a questa guerra, e io non voglio esserne parte» diceva qualche mese fa a «Le Monde» - attualmente sta preparando un film su Limonov e sarà al prossimo festival di Avignone con una regia da Il monaco nero di Cechov, riflessione sulla figura del genio, e anche dell'artista, sui suoi limiti e sulle sue responsabilità. Un interrogativo questo che ricorre nel suo lavoro, e che troviamo anche in La moglie di Tchaikovsky col desiderio di dare dell'autore del Lago dei cigni una immagine lontana dai cliché nel suo dolore e della sua rabbia. Ma anche, viene da aggiungere vedendo il film, nella distanza manipolatoria che mette in atto verso il mondo a cominciare proprio da Antonina. Del resto all'inizio doveva essere un film su Tchaikovsky, però il ministro della cultura russo, Vladimir Medinsky, lo stesso che è a capo dei negoziati tra Russia e Ucraina, aveva bocciato il progetto perché l'omosessualità del compositore è un tabù.
ECCOCI DUNQUE tra le vite dei protagonisti (gli attori Alyona Mikhaylova e Odin Biron) nella Mosca degli zar che echeggia quella attuale, povera, classista, soffocata da una religione onnipresente dove ci si diverte nelle case della nobiltà popolate da artisti accolti in virtù del loro genio. È in una di queste serate che Antonina vede Tchaikovsky per la prima volta, lei è giovanissima, l'uomo è brillante, la sua musica potente, gli amici gli fanno cerchio intorno, tutti sembrano adorarlo. È molto più vecchio di lei ma non importa, quella ragazza solitaria e devota fino all'ossessione decide che deve essere il suo destino. Gli scrive una, due volte, si incontrano nella sua stanzetta severa, gli serve il thè con la tovaglia e le porcellane buone, lui fugge terrorizzato dalla tristezza, poi torna – è l'alibi per le voci che potrebbero distruggerlo – e accetta. Le spiega che non è abituato a condividere le giornate con qualcuno e soprattutto che non è mai stato con una donna, potranno essere solo come due fratelli ma senza cercare una complicità.
IL MATRIMONIO come dice la sorella di Antonina sembra più un funerale, gli amici di lui sono senza parole, una risata è sempre il commento. Nell'oscillare tra l'uno e l'altra, tra queste solitudini contrapposte e disperate, Serebrennikov costruisce geometrie fin troppo chiare per dire dell'orrore che monta nell'uomo, la fotografia – Sontag avrebbe detto molto – in cui la coppia posa ci dice questa separazione, nessun contatto, neppure sfiorarsi ciascuno nel proprio mondo. Ma Antonina non è Adele H – né Serebrennikov Truffaut - e a quell'amore univoco come un atto di fede sembra non trovare una chiave di interpretazione. L'invisibilità che condanna Antonina diviene esemplare del machismo imperante anche nell'omosessualità, i circoletti di ragazzini muti e marinaretti fassbinderiani sono odiosi in quel loro comune disprezzo per la donna.
È dunque solo il machismo di una società che li intossica e li incatena alle loro paure e fantasmi, donne e uomini? Il codice dei ruoli che spinge Antonina a un goffo (e fastidioso) approccio sessuale col marito, pietra tombale della loro relazione? E quella sua testa popolata di visioni scollate dalla realtà? Difficile capirlo, forse perché a sfuggire è il punto di vista dell'autore – e quello spazio invisibile spiegato nella forma più ufficiale – il patriarcato – senza alcun imprevisto. O quello che manca è invece l'amore per i personaggi nonostante tutto? Forse il problema è proprio qui.

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