VISIONI

«Noi due», l’on the road di un padre e un figlio verso l’età adulta

Il film di Nir Bergman riflette sui legami famigliari a partire dalla storia di un ragazzo autistico
CRISTINA PICCINOisraele

Parlando del suo film Nir Bergman definisce il protagonista un uomo «mezzo cieco lungo il cammino, costantemente portato a minimizzare i propri bisogni per soddisfare quelli del figlio». Che ha vent’anni ma è autistico, e a lui Aharon, il padre (Shai Aviv) ha dedicato la propria vita al punto di rinunciare anche al suo lavoro di disegnatore. Il matrimonio nel frattempo è finito, è proprio la madre del ragazzo a insistere per inserirlo in un centro specializzato pensando che sia giusto cercare di renderlo più indipendente - anche in prospettiva di un futuro nel quale loro due non ci saranno più. Ma questa cosa per il padre è inaccettabile, significherebbe la fine di un mondo, il loro, fatto di piccoli riti quotidiani, di abitudini rassicuranti come la pasta a forma di stelline e i film di Chaplin dai quali Uri, questo il nome del ragazzo (Noam Imber), si sente protetto.
È DUNQUE davvero così lineare questa relazione o la cura del padre per il figlio si è con gli anni trasformata in una «bolla» da cui l’uomo è dipendente quanto il giovane? In questo spazio emozionale si pone Nir Bergman, regista israeliano autore di serie televisive di successo tra cui quell’In Treatment divenuta poi mondiale, e costruisce la sua narrazione a partire da una delle figure letterarie più esplorate, non solo al cinema, che è appunto quella del binomio padre e figlio. Per trasportarne le dinamiche di protezione e di paure in una condizione che le rende più acute - la vulnerabilità del figlio autistico - verso la consapevolezza che anche questo figlio è diventato grande.
La struttura che Bergman sceglie è quella dell’on the road, un viaggio che è di fuga e insieme di conoscenza, che porta a una nuova visione del rapporto, a un cambiamento come in un romanzo di formazione a due doloroso ma insieme necessario. Certo è una materia delicata, il regista però sa maneggiarla con attenzione, modula affetti e passaggi commuoventi senza essere mai sdolcinato o melodrammatico, e senza sovraccaricare la temperatura emotiva. I dialoghi tra i due personaggi accennano al passato nel presente della loro esistenza insieme, riportano alla luce alcuni frammenti di ciò che è accaduto negli anni e non insistono mai nelle spiegazioni. È il qui e adesso il tempo della storia, tra incontri e momenti di confidenza e di nuove conoscenze reciproche, le note di Gloria (di Umberto Tozzi) e quel paesaggio di Israele nel quale sono immersi che sembra aprirsi e muoversi insieme alle loro esitazioni.
A SOSTENERE la regia c’è la scrittura precisa della sceneggiatrice Dana Idis che si è ispirata al proprio vissuto famigliare, il legame tra il padre e il fratello autistico, ed è forse questacifra dell’esperienza rivista nella distanza narrativa a permettere al film di aprirsi, di percorrere piste diverse. Perché Noi due, in sala da ieri, che era tra i titoli «labelizzati» dal festival di Cannes nel 2020, quando l’edizione è stata cancellata per la pandemia, non è soltanto un film sull’autismo - in questo senso il riferimento non è il Rain Man con Dustin Hoffman, forse più Il monello nelle scelte di stile dell’autore - o su un padre alle prese con dei bisogni speciali del figlio, ma una riflessione sulla genitorialità, su quei legami che qui vengono espressi da «padre e figlio» - e appunto amplificati dall’autismo - ma che un po’ per tutti sono difficili a mutare e per entrambe le parti; i genitori e i figli che continuano a rappresentarsi (a essere?) sempre un po’ come tali. Sono questi «gradi di separazione» che Bergman prova a esplorare con dolcezza, malinconia, e molto pudore.

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