CULTURA

Joan Fontcuberta, scetticismo e dimenticanza delle immagini

L’AUTORE È OSPITE A «FOTOGRAFIA EUROPEA» DI REGGIO EMILIA
SABRINA RAGUCCIITALIA/REGGIO EMILIA

Per molti anni, Joan Fontcuberta si è occupato di «fotografia e verità» e ci ha mostrato che se l’uomo ha vissuto in funzione delle proprie immagini, l’immaginazione si è spesso risolta in allucinazione.
Nel 1996, aveva diretto Les Rencontres d’Arles e in occasione del festival francese, aveva accorpato alcuni testi, ora editi da Mimesis con il titolo Il bacio di Giuda (pp. 184, euro 16, traduzione di Francesca Di Renzo, presentazione di Michele Smargiassi). «Ho voluto rendere omaggio a tre fari intellettuali del XX secolo: Jorge Luis Borges, Roland Barthes e Vilém Flusser - dice Fontcuberta - Mi sono servito dei loro lampi di intelligenza (…) per mettere a fuoco problemi e ambizioni esistenti allora nel panorama della fotografia: la curiosità per le illusioni e i paradossi, le perversioni allucinatorie dell’iperrealismo e la trasgressione delle regole dei sistemi di rappresentazione».
LA LETTURA di questi otto saggi sulla relazione tra fotografia e verità, di tarda epoca analogica, risulta quanto mai utile ora che possiamo solo mentire. Tra inconscio e tecnologia, si palesano molte delle questioni protofotografiche: apparenza o impronta, finzione o indizio, vampiri o narcisi? Gli scritti de Il bacio di Giuda (bacio e Giuda rappresentano ontologicamente la fotografia) ri-esaminano dubbi qualche volta superati (ne La furia delle immagini) dallo stesso Fontcuberta, dubbi connaturati alla creazione e alla natura di un’immagine, dubbi che hanno minato per sempre il nostro sistema di ricezione delle informazioni.
Non più consolati da persuasivi (pseudo)realismi, come la rimozione dalle fotografie analogiche dei nuovi nemici (vedi l’immagine di Mao Tse Tung accanto a Peng Zhen, sindaco di Pechino nel 1958 poi rimosso, per questioni politiche, anche dalla quella fotografia), eccoci, dicevamo, disillusi rispetto alla possibilità di trovarci di fronte alla verità: diamo anzi per scontato che niente possa essere come è.
PERSINO L’OPACITÀ della fotografia è oltrepassata. Manipolare il dubbio inverte la relazione e orienta la fotografia verso il futuro, il dubbio è ricerca, la fotografia solo un percorso. Se la fotografia è l’evidenza della propria ambiguità chiediamoci che tipo di esperienza ci dispensa la fotografia. O meglio a cosa ci serve? «La fotografia è una finzione che si presenta come veritiera. A dispetto di ciò che ci hanno inculcato, a dispetto di ciò che siamo soliti pensare, la fotografia mente sempre, mente per istinto, mente perché la sua natura non le permette di fare diversamente. Ciò che conta, però, non è quell’inevitabile menzogna».
Ci scopriamo incapaci di immaginare o decifrare sprazzi di verità se non proiettati in una sequenza da slideshow aziendale, in un banale flusso equivalente. Viviamo la sensazione di avere già tutto vissuto da qualche altra parte: che film era? Scrive Fontcuberta nell’introduzione: «L’umanità si divide in fanatici e scettici. I fanatici sono i credenti. Fanatismo deriva dal latino fanum, che significa tempio, cioè lo spazio per praticare il culto, la fede e il dogma. Gli scettici, invece, sono quelli che diffidano in maniera critica».
Fontcuberta è uno scettico che ha studiato comunicazione e conosce l’uso della persuasione, del superlativo e dell’iperbole, conosce la persuasione quando è mascherata in un discorso per immagini: fotografiamo non per ricordare ma per dimenticare.
NEL SAGGIO Veggenza ed evidenza, è ricordato un film, Occhi di Laura Mars (1978), diretto da Irvin Kershner; Laura Mars/Faye Dunaway è una fotografa newyorchese agli antipodi del protagonista di Blow-up di Antonioni; non è mai stata una fotoreporter, tuttavia mette in scena immagini macabre, simulazioni di omicidi, fino a quando si accorge che le sue immagini si trasformeranno in visioni anticipatrici: saranno proprio le sue immagini a realizzare quei crimini orribili? Ed è così che sapremo. Dopo Laura Mars, sapremo che il fotografo non potrà mai essere un outsider.

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