VISIONI

«Pasionaria», mistero e sofferenza nella danza

MARCOS MORAU ALLA TRIENNALE
FRANCESCA PEDRONIITALIA/MILANO

La scena è opaca, di un buio lattiginoso, inquadrata da una cornice sottile di luce incandescente che crea una separazione dagli spettatori sulle note di Bach. Nella nebbia si stagliano uno scalone, un divano, una grande finestra che chiude fuori (senza certezza di riparo) galassie in frantumi e spaventevoli densità rosso fuoco. Otto i personaggi, straniati automi impazziti. Sembrano insieme per caso, in un bizzarro luogo di passaggio, da cui si esce solo digitando un codice, posizionato accanto a una porta su cui si staglia un ansiogeno led rosso.
È IL SORPRENDENTE contesto di Pasionaria, spettacolo che lo spagnolo Marcos Morau, coreografo, fotografo, regista, scenografo, ha portato alla Triennale Milano per Fog 2022 con la sua folgorante compagnia La Veronal. Il titolo si lega al concetto di passione, ma anche al pathos, che è sofferenza, come nella Passione di Cristo a cui fanno, non a caso, riferimento gli stralci di Bach. La questione sulla quale Morau ha costruito Pasionaria gioca sulla negazione: non esistono nello spettacolo sentimenti, relazioni tra i danzatori, i personaggi sono figure robotiche. Il lavoro sul gesto è corrosivo. Il movimento è artificiale, spezzato, disarticolato: anche quando si danza sul Clair de lune di Debussy, la passione è nel ricordo di chi guarda, non sulla scena, dove tutto, musica e gesto, sono raggelati in una nevrotica disumanizzazione.
L’ASSENZA di passione ha tratti che potrebbero essere anche comici con i danzatori che inciampano sotto pacchi giganteschi, i personaggi alla Schlemmer, ingabbiati in palloni giganteschi, i corpi resi surreali da braccia e gambe triplicate. Ma il tempo della visione è quello dello spettatore di oggi, del vivere nella quotidianità di questo 2022, sommerso da problemi politici, sociali, da immagini raccapriccianti di morte. Il tragico prende così il sopravvento, la scena diventa, nella fruizione, apocalittica, con quel correre di qua e di là, con quelle telefonate che non risolvono nulla, con quei fantocci di bambini messi in scatole trasparenti, con quel senso di decomposizione dietro l’angolo, pronto a invadere, come una bomba, la scena dalla finestra.
D’altronde è questo il potere di un teatro realmente visionario: mettere in scena qualcosa che si trasforma negli anni attraverso il tempo in cui si vive, aprire riflessioni mai identiche a se stesse, fautrici, come con Morau, di un movimento nel pensiero.

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