CULTURA

Diaspora africana, canzoni moresche e danzanti

SCAFFALE
CLAUDIO CORVINO

Rinascimento significa molte più cose più di quelle che ci hanno mostrato volumi come La cultura del Rinascimento in Italia di Burkhardt o quella sorta di epistemologia del negativo che fu il capolavoro di Battisti L’antirinascimento. A confermarlo è Il chiaro e lo scuro. Gli africani nell’Europa del Rinascimento tra realtà e rappresentazione, un volume delle edizioni Argo (pp. 496, euro 28) che racconta la prima diaspora africana dell’inizio dell’età moderna. Un episodio apparentemente minore della storiografia della schiavitù europea che ne rivela le caratteristiche da approcci disciplinari diversi: archivistico quello di Boccadamo, storico quello di Houben e archeologico di Lowe, antropologico e musicologico per Rak e Gianfranco Salvatore, che è anche curatore del volume. Un approccio linguistico hanno inoltre i saggi di Lipski e Cyffer e poi c’è quello squisitamente iconografico (Kaplan). Diviso in tre parti – repertori cronachistici, letterari, visuali e topografici; melici, musicali e teatrali; sfondi, dettagli, strumenti metodologici – Il chiaro e lo scuro narra quell’ininterrotto flusso di oro nero che bagnò l’Europa da quando il fiorentino Marchionni ne cominciò l’importazione dal 1486.
I DIFFERENTI SAGGI descrivono sotto nuove forme e contenuti il pregiudizio europeo sull’Altro. Come giustificare che esseri umani mori e neri potessero pacificamente guidare gondole a Venezia – come vediamo nei dipinti di Carpaccio – essere servitori fedeli – lo mostra Kaplan nei «ritratti doppi» – o militari al servizio del duca Alfonso I d’Este – nel cui entourage nacque il racconto che ispirò l’Otello shakespeariano? I mori non erano quegli esseri mostruosi che si diceva all’epoca, però conservavano uno stile di vita «sbagliato» e parlavano in modo ridicolo, secondo uno stereotipo letterario che residuerà ancora in Salgari. Quel loro buffo parlare afro-italiano sarà il segnale sonoro più immediato non solo della presunta inferiorità dello straniero ma anche della sua potenziale ostilità perché maltrattando la lingua-madre, la lengua que mamamos (con cui allattiamo), commetteva una delle più gravi infrazioni all’etica familiare dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Eppure è forse proprio da questi dileggi popolari, poco più che sketch, o dagli spettacoli di strada, che nasceranno le canzoni moresche, che a Napoli ebbero il loro più diuturno fiorire. In genere raccontano di esili vicende d’amore e nel giro di pochi decenni queste storie informarono Carnevali, giochi infantili, folklore e cultura di strada. Anche la danza fu interessata da queste felici commistioni, ma per i rigidi corpi ingessati dalla morale europea quei movimenti troppo liberi e sensuali dei mori divennero presto simbolo di lascivia e lussuria.
INTERESSANTE anche la lingua utilizzata: non parlato a tratti incomprensibile come voleva una certa tradizione di studi, ma kanuri, una lingua nilo-sahariana. Quell’apparente eloquio strampalato col tempo diverrà un pidgin afroeuropeo che contribuirà a creare le lingue franche, i sabir, utilizzate negli scambi commerciali. Aberranti transazioni che vedranno uomini, donne e bambini come semplici merci.

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