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L'Albania ferita di Alfredo C.

CHRISTIAN ELIA italia/albania

La storia di un film è, in alcuni casi, una storia di mille storie. Quella de La macchina delle immagini di Alfredo C., l'ultimo film del regista albanese Roland Sejko, è un ordito che a prima vista sembra lineare, ma che in realtà concorre a determinare una fitta trama di relazioni. Adriatiche, prima di tutto, di quell'identità che in Italia spesso finisce per essere periferia della narrazione mediterranea, ma che non è meno profonda, almeno rispetto al rapporto con l'Albania. E per entrambe le sponde, quella italiana e quella albanese, c'è un rapporto forte e controverso con la memoria, in particolare quella dell'occupazione italiana e del regime di Enver Hoxha, dove la ferocia del secondo ha finito – quasi – per edulcorare il ricordo della prima.
ACCOLTO positivamente dalla critica, selezionato nella decina dei documentari per il David di Donatello, arriva ora nelle sale cinematografiche italiane dopo la selezione per il festival del Cinema di Venezia, l'incredibile storia di Alfredo C. è quella di un cineoperatore, impigliato tra due dittature. Prima in Italia, meccanismo della macchina di propaganda del fascismo, poi al seguito delle truppe italiane che invadono l'Albania il 7 aprile del 1939, dopo anni di un «protettorato» di facciata, e infine al servizio del regime di Hoxha, che dopo la presa del potere nel 1944 ha bisogno di professionalità che mancano nel paese. Le tecniche di ripresa della «mascella» di Mussolini finiscono per essere le stesse delle parate del regime, come in un continuum narrativo delle dittature, che però non rendono tutto uguale, come Sejko precisa con cura.
«L'Italia ha occupato a mano armata l'Albania, non va dimenticato, mai – racconta il regista - Poi ci sono la memoria e il ricordo, e sono un livello differente. Come ho voluto far dire al protagonista, il giorno dell'occupazione militare italiana, quella giornata portava in sé conseguenze imprevedibili, per la storia successiva dell'Albania e per gli italiani che restarono intrappolati là dopo la guerra».
Ecco che Alfredo C. è un uomo diviso tra due mondi, tra storia e Storia, ma posto dal caso nel ruolo di colui che la raccontava, sempre dal punto di vista del regime, quale che fosse. Un racconto del Novecento, un racconto dei totalitarismi, dal punto di vista di un uomo che, in fondo, amava solo la pellicola e la cinepresa. E qui c'è un altro dei livelli del film. «Ho voluto girare in pellicola non solo perché la qualità resta superiore – racconta Sejko – ma anche perché voglio invitare a riflettere sul rapporto con la tutela della memoria, con la conservazione della storia e del racconto collettivo. La pellicola, mia come quella del protagonista, è una metafora di come si possa deteriorare e perdere il ricordo, materiale e immateriale, nel rapporto con il passato, in Italia come in Albania, dove per motivi diversi il rapporto con la memoria è complesso. Senza alcuna ambizione di storico, ma con l'attenzione dell'artigiano del cinema».
PRODOTTO e distribuito da Luce Cinecittà, La macchina delle immagini di Alfredo C. conferma il talento di Roland Sejko nel lavorare con i materiali d'archivio già visto in lavori precedenti. «Il protagonista è una voce collettiva, narrata come sintesi di tutte le vite documentate che si sono trovate impigliate in quel periodo storico, a cavallo tra Italia e Albania», spiega Sejko.
Il materiale, proveniente in particolare da due archivi, genera un personaggio portato sullo schermo dall'interpretazione intensa di Pietro De Silva, che collettivamente rappresenta i 27mila italiani rimasti bloccati in Albania nel 1945. Alfredo C. è tra loro, sa fare il cineoperatore, finisce al fianco del consulente russo che detta la linea. Il protagonista è vicino alla storia vera dell'operatore dell’Istituto Luce in Albania, Alfredo Cecchetti, ma come spiega Sejko è stato solo un input per una polifonia di storie e di temi. E uno di questi temi è anche quello dei rapporti tra Italia e Albania, che spesso sono quasi un rimosso italiano, che congela l'Albania alla polaroid degli sbarchi degli anni Novanta.
«DURANTE le lunghe ricerche negli archivi cartacei italiani e albanesi cercavo di trovare una chiave di racconto, tra le varie liste conservate nell’Archivio Centrale dell’Albania, in un documento di rimpatrio ho notato un nome che conoscevo: era quello dell’operatore dell’Istituto Luce in Albania. Alfredo Cecchetti non è un nome importante tra gli operatori del Luce, appare solo nei documenti della sede dell’Istituto Luce a Tirana e a Roma, e nei titoli di coda dei documentari girati durante il fascismo a Tirana. Ora il suo nome, con tanto di firma, lo trovavo in un documento indirizzato al Ministero della Stampa, Propaganda e Cultura Popolare del Governo Democratico dell’Albania. ‘Il sottoscritto Alfredo Cecchetti, operatore foto-cinematografico presso codesto Ministero, chiede di essere rilevato dal suo compito per poter rimpatriare in Italia per ragioni familiari’. Dichiarava tra altro di avere svolto bene il suo compito come operatore e di avere dato ‘istruzioni che possiamo chiamare anche lezioni’ al compagno Mak, pseudonimo di Mandi Koçi, il primo operatore cinematografico albanese, il cui nome si troverà dalla fine degli anni ‘40 su quasi tutti i documentari di propaganda albanesi», ha spiegato il regista che, nato e cresciuto in Albania, dopo la laurea alla Facoltà di Storia e Filologia di Tirana vive dal 1991 a Roma e dal 1995 lavora per Istituto Luce Cinecittà, dove è direttore della redazione editoriale dell'Archivio Storico Luce.
«QUESTO FILM è anche una dichiarazione d'amore al cinema e agli artigiani, alle macchine di un tempo. Oggi tutti hanno una cinepresa in tasca, ma quello era un lavoro più complesso, e deperibile, come la pellicola e i ricordi – spiega Sejko – che vanno tutelati, anche di fronte alle semplificazioni degli 'italiani brava gente'. Bisogna mantenere, sempre, uno sguardo critico, e umano. E rispetto alle reazioni del pubblico, nelle tante proiezioni in Italia, credo che sia arrivato a colpire il bersaglio. A giugno ci sarà la prima in Albania, a Scutari, e sarà bello ed emozionante vedere come verrà percepito».
Ecco che Alfredo C., in fondo, è molte vite, è molti sguardi, ma è anche un monito: la capacità di raccontare storie, nelle quali ciascuno si può riconoscere, ma che non confondono il bianco e il nero e non mettono tutte le Storie sullo stesso piano.

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