INTERNAZIONALE

Niente formazione e indipendenza: meglio rider che operaio

VITTORIA MAZZIERICINA

I giovani non vogliono sporcarsi le mani. Lo ha detto Zhang Xinghai, deputato del Congresso Nazionale del Popolo e proprietario dell’azienda automobilistica Xiaokang Group. Il 5 marzo, a poche ore dall’inizio delle due sessioni annuali legislative, Zhang ha dichiarato che negli ultimi anni le nuove generazioni hanno preferito impieghi nella consegna espressa, nell’e-commerce o nel live streaming rispetto a un lavoro tradizionale in fabbrica.
Che il settore manifatturiero stia soffrendo una carenza di manodopera è una questione di cui si discute da anni. Nel 2025 saranno circa 30 milioni, secondo le stime del governo, i lavoratori di cui si avrà bisogno nelle fabbriche di tutto il paese. Ma, come spiega al manifesto Aidan Chau, ricercatore della Ong China Labour Bulletin, aziende di dimensioni differenti ne stanno soffrendo un impatto diverso. Le grandi realtà «hanno varie opzioni a disposizione: ad esempio, possono optare per l’automazione. Le più piccole, invece, possono rispondere solo aumentando i salari agli operai specializzati».
Per incrementare la sua forza attrattiva il settore manifatturiero dovrebbe migliorare le condizioni salariali e lavorative, ha detto Pan Yi, professoressa alla Facoltà di Scienze Sociali di Hong Kong, al settimanale di Guangzhou Southern Weekly.
Un processo già avviato: i dati dell’Ufficio nazionale di statistica del 2020 riportano che il salario medio annuale di un operaio base è di circa 61 mila yuan (8.700 euro), un aumento del 6,2% rispetto all’anno precedente. Ma nella lunga serie di commenti correlata all’hashtag di Weibo che riporta le parole del deputato - visualizzato oltre 540 milioni di volte – la paga non figura come un elemento centrale. Vengono chiamate in causa, invece, la libertà e la flessibilità delle professioni da gig economy, che di certo garantiscono maggiore spazio per l’interazione sociale rispetto alla rigida disciplina da catena di montaggio, dove in genere non si parla e dove spesso non ci riposa per più di quattro giorni al mese. Molti lamentano anche le difficoltà di accedere alla scalata professionale intra-aziendale: impensabile per gli operai di base, difficile per i laureati.
Ma Pechino ora punta a convertire milioni di ex lavoratori migranti in operai altamente qualificati. E per riuscire nell’impresa ha varato una serie di misure per promuovere lo status dell’educazione professionale, un ampio spettro che comprende tanto università prestigiose come la Suzhou Industrial Park Institute of Vocational Technology (IVT) quanto scuole superiori nelle aree più remote del paese. Malgrado secondo i dati del 2020 gli istituti professionali abbiano formato 16 milioni di ragazzi, il 40% della popolazione in età da scuola superiore, questo genere di educazione viene ancora percepita come una «seconda scelta». Come ha scritto Xiong Bingqi, pedagogista e vice direttore del think tank 21st Century Education Research Institute, le scuole forniscono alle aziende locali, con il benestare delle istituzioni, stagisti a basso costo nei periodi ad alta intensità di lavoro.
Il risultato è che si fornisce un’istruzione di bassa qualità e si viene meno anche agli obblighi di formazione di manodopera qualificata, perpetrando un circolo vizioso di operai poco specializzati – salari bassi – produzione di bassa qualità. Di innovazione, neanche l’ombra.
In questo scenario, in cui il lavoro da operaio è stigmatizzato e in cui, secondo un recente sondaggio, oltre il 60% dei diplomati nelle scuole professionali non è disposto a finire in catena di montaggio, l’impiego da fattorino esercita una attrattiva sempre maggiore: non servono lungi corsi di formazione, basta un telefono cellulare e un mezzo di trasporto.

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