VISIONI

Santiago, Italia. Inti Illimani e una tradizione in costante movimento

JORGE COULÓN RACCONTA IL NUOVO CORSO DEL GRUPPO CILENO
FRANCESCO BRUSCOcile/italia/firenze

«Speravamo di tornare in Italia e fare semplicemente musica, senza le pressioni delle circostanze incombenti», dice Jorge Coulón, storico portavoce del gruppo cileno reduce da un tour che l’ha portato nei giorni scorsi in Italia. Il ritorno nel nostro paese, procrastinato dalla pandemia, trova ora un contesto che impone di iniziare il discorso dal messaggio politico degli Inti Illimani e dal loro stesso passato di esuli. «È come se avessimo riconquistato la palma di ambasciatori della pace. Ma il fatto che oggi la guerra sia così vicina ai confini dell’UE non significa che prima non ci fosse: il muro caduto a Berlino, mentre noi tornavamo in Cile dopo quindici anni, è stato ricostruito in tanti altri luoghi». Ma rispetto al dibattito culturale del secolo scorso, la sensazione è che la voce degli artisti sia sempre più evanescente. «L’artista non può cambiare il mondo, ma a volte può anticipare gli eventi, avvertendoci. Quell’arte grandiosa e impegnata che abbiamo conosciuto nel Novecento, come quella di Picasso, non c’è più. Abbiamo coltivato individualismo per cinquant’anni, e oggi gli artisti legati a certi valori sono fuori moda».
GLI INTI ILLIMANI stanno invece vivendo un inatteso rilancio, anche grazie alla nuova temperie politico-culturale cilena, che essi hanno seguito sin dai primi passi del movimento, nel 2011: «Un percorso che ha portato alle proteste del 2019 e alla vittoria di Boric e di questo governo di ragazzi, capaci di costruire un autentico ponte generazionale. E noi, come musicisti, all’improvviso siamo tornati popolari».
E come musicista ci tiene a rimarcare aspetti spesso oscurati dagli stessi contenuti politici. «Molte volte l’impegno ha commesso crimini musicali, e partorito testi terribili!» osserva ridendo, prima di illustrare i nuovi progetti: «La nostra intenzione era di fare un tour in teatro, centrato maggiormente sulla musica, senza ovviamente rinunciare al nostro valore simbolico. Abbiamo sempre cercato di essere un gruppo vivo, attento a ciò che la musica ci dice, dialogando con il pubblico e con gli altri musicisti, ma anche con i suoni del mondo, delle città, delle persone. Non siamo il museo ambulante di noi stessi!».
La sua visione dall’interno della musica popolare invita a superare un certo conservatorismo etnomusicologico. «Non è una tradizione immobile» — dichiara — «Il popolo è in movimento e lo è anche la musica. La tradizione dei miei avi non è quella dei miei nipoti; la gente della tua generazione, che è la stessa dei miei figli, vive la ruralità in modo molto diverso, ma la musica c’è sempre». Come definire, quindi, l’estetica musicale degli Inti Illimani? «Antonio Skármeta dice che nelle nostre canzoni c’è innocenza, voglia di giocare. Pensa a brani come La Fiesta de San Benito, o Ramis, in cui giochiamo con la melodia e il canone, senza avere dietro l’accademia. È anche merito dell’influenza africana se in Sudamerica puoi trovare questo contrappunto canoro, un gioco di imitazioni che non è quello di Bach. Ma tante altre musiche sono permeate nella nostra tradizione, come quelle mediterranee legate alle popolazioni arabe del nord Africa, giunte a noi tramite la Spagna: quello dei contadini portoricani, ad esempio, è un canto molto vicino al flamenco, non solo per il virtuosismo dei melismi».
I CONCETTI espressi a voce trovano riscontro sul palco. Il concerto fiorentino è stato aperto da Giulio Wilson, cantautore fiorentino che con Jorge e compagni ha inciso il pezzo che dà il titolo al tour, Vale la pena: «Un inno alla libertà, con una melodia latina e un ritmo ancestrale, che proposi a loro tre anni fa. Non immagini la felicità di raggiungerli in studio a Santiago, proprio nei giorni in cui il Cile scendeva in piazza. Sono orgoglioso di essere padrino del loro ritorno in Italia».

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