VISIONI

Adrien Lyne, la luce del corpo e il senso dello sguardo

«ACQUE PROFONDE» SU PRIME VIDEO
LUIGI ABIUSIusa

Dopo vent'anni dall'ultimo suo film, torna Adrian Lyne, a dispetto – o meglio in virtù – della patinatura che tradizionalmente la critica ha assegnato al suo cinema, quello smalto delle superfici, delle epidermidi, degli abiti succinti; proprio la luce laccata che si posa sulle cose, lo strato laccato, leccato del feticcio, che sembra essere la forza del suo cinema.
IN «ACQUE PROFONDE» si tratta di calze di nylon, scarpe, abiti scollati messi addosso a Melinda, appunto la patina del feticcio, tenuto conto che Ana De Armas, dentro lo spazio dell'inquadratura – che sia il giocattolo, l'ologramma di Blade Runner 2049 o l'agente segreto dell'ultimo 007, No Time To Die – è già di per sé feticcio nell'immaginario contemporaneo, «un lavoro in pelle» luminoso, raggiante, che non manca però di prospettare abissi attraverso la vasta superficie dei suoi occhi, ma lo stesso si potrebbe dire di Ben Affleck e della rassegna d'uomini, uno diverso dall'altro quasi didascalicamente, in successione sulla scena. Sembra proprio questa la chiave di lettura privilegiata del cinema di Lyne e tanto più di quest'ultimo suo film che avrebbe meritato la sala, lo schermo grande, il décor di velluto buio della sala, anziché la piattaforma: è su Prime già da qualche giorno e comunque, nonostante le angustie dello schermo televisivo, non manca di turbare ed eccitare gli spettatori di nuovo invischiati nei giochi di corpi di quel Lyne che negli anni Ottanta, anni di feticci e patinature, fu di Flashdance, Nove settimane e mezzo, Attrazione fatale. Il rapporto tra superfici, patine di un immaginario borghese, spesso coniugale, e determinate, insondabili profondità (psicologiche, psicopatologiche) che si aprono attraverso gli occhi, lo sguardo: questo sembra essere il senso del cinema di Lyne. Sono impotenze, perversioni, morbosità, come quando Melinda porta alla luce, dal profondo delle mutande di Vic, un pelo pubico, togliendoselo via dalla lingua, dalla bocca. Acque profonde è allora un film di sguardi che scandiscono la verità scenografica e morbosa del corpo; ed è un film sullo sguardo, cioè sulla condizione essenziale del fare cinema e dell'intessere quel grado particolare dell'essere che chiamiamo passione.
È LO SGUARDO che i due coniugi gettano in continuazione, reciprocamente su di loro – Melissa che spalanca i suoi occhi enormi e lascivi su Vic mentre si fa toccare, baciare da un altro – che innesca il gioco del film, l'azione, quell'ingranaggio a gelosia spinta per cui Vic agisce, non può che agire spinto da quel propellente eidetico, immaginifico, lancinante: sua moglie vista o immaginata prona o stesa o protesa con l'altro, sull'altro. Acque profonde è un film da non perdere: ossessivamente voyeristico, come lo è gran parte del cinema di Lyne se penso ad esempio a come il professor Humbert spiava ossessivamente Lolita; ed è un film che attraverso l'organizzazione estetizzante dei corpi nell'inquadratura, ne fa emergere la verità dolorosamente, estaticamente erotica.

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