VISIONI

Masih Alinejad: «Sono la voce di tante, lottiamo insieme per la libertà»

L’ATTIVISTA PRESENTA IL DOCUMENTARIO «BE MY VOICE»
LUCREZIA ERCOLANIiran

«Ho iniziato una rivoluzione dalla cucina di casa mia, perché mio fratello poteva fare tante cose che a me erano vietate: nuotare, andare in bici, cantare, lasciare i capelli al vento. Ero solo una bambina ma sapevo di voler fare tutto questo» afferma Masih Alinejad durante l’incontro di presentazione di Be my voice, il documentario diretto da Nadih Persson da ieri nelle sale italiane distibuito da Tucker Film. Masih, protagonista del lavoro, è una giornalista e attivista iraniana che da anni organizza campagne contro l’obbligatorietà del velo e più in generale contro il ruolo che viene riservato alle donne nei Paesi islamici. Be my voice racconta la sua figura - vulcanica, passionale, diretta - attraverso l’incontro con la regista, anche lei iraniana ma naturalizzata svedese. Persson riprende l’attivista nella sua casa negli Stati uniti, e pian piano emergono alcuni temi cardine: il ruolo dei social network, con le migliaia di persone che inviano dall’Iran i video a Masih - tra cui molte donne arabe intente a mostrare orgogliosamente i propri capelli - affinché lei sia «la loro voce»; i rischi che queste persone corrono in patria e la posizione dell’attivista nei loro confronti, abitando ormai in occidente; le minacce che riceve comunque la stessa Masih e la sua famiglia in Iran, al punto da dover accettare di sacrificare i rapporti per la loro sicurezza. «Ci sono molte donne che protestano contro l’apartheid di genere ma i governi occidentali continuano a riconoscere questi regimi liberticidi» afferma con veemenza Alinejad, infatti la giornalista prende fortemente di mira le democrazie che, secondo lei, rimangono silenti di fronte alla cancellazione dei diritti e alle lotte che le donne stanno portando avanti nei paesi dominati dai regimi islamici: «Quando le rappresentanti politiche occidentali vanno in Medio Oriente e si mettono l’hijab, vanificano il lavoro fatto. Manca una sorellanza».
ED È QUESTO rapporto vicino-lontano, la polarizzazione tra due mondi, a rendere Masih forte e debole allo stesso tempo. Se da un lato è centro e catalizzatore di un movimento per l’emancipazione, rendendo visibili denunce e gesti liberatori altrimenti relegati al silenzio, dall’altro la giornalista non può che osservare impotente la repressione brutale che avviene quotidianamente nel suo Paese e che arriva a toccare il proprio fratello. «Sono stata molto male quando hanno arrestato alcune donne che partecipavano alla mia campagna. Ci sono persone che hanno ricevuto sentenze di morte e che continuano a mandarmi video, è successo con un pugile giustiziato solo per aver protestato pacificamente. Ma altri 25 atleti della nazionale iraniana si sono uniti alla campagna, ho imparato ad avere speranza anche nel dolore».
LA BATTAGLIA di Masih, l’attivista lo ribadisce, non è contro gli uomini ma punta anzi ad ottenere il loro sostegno: «Abbiamo visto come la Repubblica islamica ha fatto il lavaggio del cervello agli uomini mettendoli contro le donne. La mia lotta non è contro un pezzo di tessuto ma contro uno dei pilastri della dittatura religiosa. Credo che uomini e donne se si mettono insieme possono far crollare questo pilastro». Una speranza che tutte le donne che vediamo sfilare nei video di Masih si meritano, perché anche loro possano mostrare le proprie bellissime e straripanti chiome al vento.

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