INTERNAZIONALE

Assalto alla stazione di Kiev, la speranza è Leopoli

ANDREA SCERESINIucraina/kiev

Abbiamo attraversato l’Ucraina assieme ai profughi in fuga dalla guerra. Da Kyiv a Leopoli, 540 chilometri, due giornate di tragitto. Abbiamo viaggiato su treni affollati all’inverosimile, privi di riscaldamento e sferzati da tormente di neve. Nonostante siano trascorsi ormai dodici giorni, tredici con oggi, dall’inizio dell’invasione russa, la stazione della capitale ancora rigurgita di folla. Tutti vogliono andare a Leopoli, ma i treni per Lviv arrivano dall’est e sono già strapieni di disperati. La gente si avvicina alle carrozze, si accalca attorno alle porte, bussa, urla. Niente da fare. L’unica è dirigersi altrove, puntando comunque verso ovest e cercando così, in qualche modo, di avvicinarsi alla meta.
«Andate a Chmel'nyc'kyj - ci suggerisce una donna -. A Chmel'nyc'kyj si può andare». Ed è vero. Anche il treno per Chmel'nyc'kyj è pieno, perché Chmel'nyc'kyj è a 350 chilometri da Kyiv e a Chmel'nyc'kyj la guerra non è ancora arrivata. Riusciamo a trovare posto nel passaggio tra una carrozza e l’altra, davanti a una porta che getta spifferi gelati. La temperatura è quella dell’esterno, cioè meno due gradi. Con noi, in non più di quattro metri quadrati, ci sono altre otto persone. Sono donne, bambini e anziani, perché gli uomini in età militare non possono lasciare il Paese e sono già quasi tutti sotto le armi. Chiediamo a una delle nostre vicine da dove è cominciato il suo viaggio. Ci risponde con una sola parola: «Kharkiv» - come se non ci fosse bisogno di aggiungere altro. Ciascuna di queste persone, qui, attorno a noi, porta con sé ricordi terribili di morte, case distrutte e lutti improvvisi. Non tutti hanno voglia di parlarne. Il viaggio per Chmel'nyc'kyj dura circa otto ore. Arriviamo a destinazione che è notte. Le banchine sono buie e gelate, la piccola stazione già è colma di gente in attesa. Ci sono dei volontari, in pettorina arancione, che si danno da fare per distribuire un po’ di bevande calde e qualche panino. Uscire dallo scalo non si può, perché è già scattato il coprifuoco e la piazza della cittadina rigurgita di militari e uomini della Difesa Territoriale in assetto da guerra. Quando partirà il treno per Leopoli? «Patòm», dice il capostazione - “dopo”. Il nostro patòm sarà la mattina seguente alle 9.
Col sorgere del sole la folla si è riversata nuovamente all’esterno, immobile nella tensione dell’attesa. Anche questo convoglio riesce ad accoglierci, seppur con fatica. Viaggiamo ancora in piedi, perché il pavimento è fradicio e colmo di spazzatura, e comunque non ci sarebbe lo spazio nemmeno per accoccolarsi. Dopo tre ore il treno si ferma tra due palazzoni grigi. La scritta in cirillico recita: «Ternopil». Consultiamo le mappe sul telefonino. A Leopoli mancano ancora più di cento chilometri. Vediamo la gente agitarsi, perché la locomotiva sembra non aver intenzione di ripartire. Poi sul marciapiedi spunta un uomo in divisa: «Kharkiv! - grida - Kharkiv!». Il convoglio è pronto a fare marcia indietro, e ciò significa che bisogna scendere in fretta. Ci ritroviamo ai piedi delle scalette, che sui treni ucraini sono altissime e ripide. Aiutiamo a scaricare passeggini, zaini, bimbi in età d’asilo. Un signora anziana ha le gambe che le tremano: tocca sorreggerla in due persone, e lei continua a ripetere «Spasiba, spasiba», grazie, come fosse una preghiera. Ripartiremo di lì a qualche ora, bianchi di neve e con i piedi ormai insensibili a causa del gelo.
Anche a Leopoli c’è la tormenta. Quando siamo partiti da qui, dieci giorni fa, la folla dei profughi occupava l’intera sala d’attesa della stazione. Ora la gente ha iniziato ad accamparsi anche nella piazza, dove è stato allestito un piccolo campo d’accoglienza. Il nostro viaggio finisce qui, quello dei nostri compagni di treno durerà ancora molti giorni. Per arrivare in Polonia mancano ancora cento chilometri, che sono anche i più duri. Cosa verrà dopo, ancora nessuno può saperlo.

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