CULTURA

Gli unici alieni sulla terra siamo noi

Intervista con l’artista francese che sarà alla Biennale Donna di Ferrara
ARIANNA DI GENOVAFRANCIA/italia/ferrara

Ha raccolto le tracce delle erbe selvatiche intossicate, archiviato campioni di oceani e di terre bagnate, intrappolato lacrime. Lo ha fatto per conservarne la memoria, immaginando una vita duratura e filosofica di quegli elementi. Anaïs Tondeur è un’artista francese con base a Parigi, abituata a lavorare fuori da musei e gallerie, in mezzo alla natura, di cui coglie come una detective puntigliosa le impronte effimere e impermanenti, di solito indizi invisibili ai più. Non è mai sola, con lei spesso viaggia la variegata comunità della scienza. Attualmente, sta scendendo nelle viscere della terra: ha scelto il sottosuolo per la sua narrazione del mondo.
«Sto realizzando un’installazione fotografica, concepita come un mausoleo. Deve aiutare a elaborare il lutto dell’infinito, seppellendo le nostre illusioni riguardo una terra dalle risorse inesauribili - ci racconta -. Lo sfruttamento minerario e agricolo ha segnato la fine dell’apparente permanenza di tutto. Sulla scala del tempo geologico, le risorse fossili sono rinnovabili, ma non è così per gli umani. Mi recherò in una delle miniere di estrazione dell’argento più antiche d’Europa, a Melle, sfruttate fin dal periodo merovingio. Nell’ultima vena aperta raccoglierò un frammento d’argento per mescolarlo con il cloruro di sodio estratto dalla raccolta di lacrime fatta con l’antropologa Marine Legrand. Dall’associazione delle lacrime umane con l’argento produrrò una carta salata stampandoci sopra la serie di fotografie scattate nelle profondità della miniera».
Tondeur sarà in Italia, insieme al filosofo Michael Marder, per una conferenza sul suo erbario di Chernobyl l’11 marzo (nell’ambito delle Giornate internazionali di studio sul paesaggio, Fondazione Benetton di Treviso). E poi dal 26 le sue opere si potranno vedere all’interno della Biennale Donna al Pac di Ferrara (organizzata dall’Udi e dalle Gallerie d’arte moderna e contemporanea del Comune, la mostra è a cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban).
La sua arte è in grado di creare un potente legame tra scienza e immaginario, ricorrendo a una pratica interdisciplinare...
Dobbiamo fare appello alla pluralità delle nostre percezioni e concezioni del mondo per inventare altre attitudini d’esistenza, relazione e convivenza tra specie. Non c’è nessun intento illustrativo in queste collaborazioni: con scienziati e ricercatori cerco di creare forme di «attivismo artistico» (Donna Haraway, 2016) attraverso esplorazioni aperte e dispiegando nuove reti sociali, politiche ed ecologiche. Ogni avventura interdisciplinari si sviluppa nell’arco di mesi, anche anni, come è accaduto con il filosofo Michael Marder, o gli antropologi Germain Meulemans e Marine Legrand. Solo questa lunga temporalità può sviluppare un materiale comune, permeato da riferimenti culturali e scientifici condivisi, ma anche da passeggiate, dibattiti e seminari che frequentiamo insieme. Da questo «ibrido collettivo» prendono forma i nostri progetti.
Come è nato il lavoro sull’erbario di Chernobyl?
Chernobyl Herbarium è scaturito dall’incontro con il genetista Martin Hajduch e il suo team (costantemente nei miei pensieri, in questo periodo drammatico). Hanno analizzato gli effetti della radioattività sulla flora cresciuta intorno alla centrale elettrica n. 4. Grazie a loro, ogni anno potevo realizzare l’impronta radiografica di una pianta germogliata nella «Zona di esclusione». Questi rayogrammi sono accompagnati dai testi del filosofo Michael Marder, raccolti nel libro Chernobyl Herbarium, La vita dopo il disastro nucleare (in Italia pubblicato nel 2021 da Mimesis, ndr). Sono radiografie create dall’impronta diretta del corpo fisico della pianta su lastre fotosensibili. Una scrittura di luce che cattura una presenza, quella della flora investita dall’isotopo Cesio-137. Sono, come le descrive Marder, tracce materiali del disastro invisibile. Io registro questo «invisibile», provo a costruire uno spazio di risonanza: anche le piante sono esseri viventi segnati dal trauma dell’esplosione nucleare e, in questo momento, dalla violenza di una guerra sconcertante. Il mondo vegetale mi ha permesso di scoprire la «Zona di esclusione», chiamata anche di «alienazione». È più precisa come definizione perché suggerisce che ciò che resta di Chernobyl è il risultato di un processo - ancora incompiuto - di un’umana alienazione dalla terra. La Zona pullula di specie viventi, ma noi siamo diventati gli «altri». Ciò che mi ha più colpito è stata l’adattabilità delle piante di Chernobyl. L’équipe di Martin Hajduch ha studiato le loro mutazioni. Lino e soia, in poche generazioni, hanno trasformato le loro cellule madri così da poter sopravvivere nell’ambiente ostile. Ma cosa accadrà, invece, ai viventi minacciati oggi dalla brutalità della guerra e dalla catastrofe nucleare?
Alla XIX Biennale Donna di Ferrara ci sarà anche la sua installazione artistica sull’odore della terra dopo la pioggia...
Si chiama Pétrichor, è il risultato di un’indagine condotta con l’antropologo Germain Meulemans. Abbiamo analizzato il nostro rapporto con i suoli urbani, che fino a tempi recenti erano descritti come «non suoli», materia inerte, sorta di «scatole nere tecniche» della città dove circolavano le reti di acqua, gas, elettricità… Combinando pratiche alchemiche, arte contemporanea e antropologia urbana abbiamo messo a punto un protocollo di indagine poi condiviso con giardinieri, studenti, attivisti, residenti, rifugiati e ricercatori.
Insieme, annusiamo il petricore, l’odore molto particolare della terra dopo la pioggia. È un neologismo che risale agli anni 60. deriva da petra, «pietra» in greco e ichor, termine utilizzato da Omero per definire «il sangue degli dei». La ricerca di questa essenza ci porta a rilevare l’intreccio di interazioni invisibili che si instaurano tra l’attività dei batteri del suolo, il sole che li riscalda e le condizioni atmosferiche che intrappolano l’ozono. Non si tratta di replicare il profumo del petricore, ma di cogliere le connessioni sfuggenti che collegano i suoli ai micro e macro organismi, agli elementi atmosferici e alle nostre esistenze urbane.
Nella sua biografia, dice di rilevare «le tracce di fenomeni reali per scoprire mondi che altrimenti sarebbero inaccessibili alle nostre percezioni». Può fare qualche esempio?
Il processo di creazione del mio lavoro Noir de Carbone - le fotografie sono stampate da particelle di nerofumo, catturate nell’aria e poi trasformate in inchiostro utilizzato per imprimere ogni porzione del cielo da cui sono state prelevate - rende evidente proprio questa intenzione. Quelle particelle, di dimensioni inferiori al micron, non conoscono confini geografici né alcun limite tra l’interno e l’esterno del nostro corpo. Si infiltrano attraverso i pori della pelle e si depositano negli organi. Rimandano alla nostra vulnerabilità. È necessario mettere in crisi la costruzione di ontologie ereditate dall’Illuminismo - e consolidate dal pensiero moderno - che disegnano una padronanza e un controllo degli ambienti di vita.
Durante la pandemia abbiamo assistito a una rinascita del mondo selvatico che si è impossessato anche degli spazi metropolitani. Pensa che quel momento sia rimasto legato all’emergenza o potrà trasformarsi in una soluzione ecologica?
È stato sorprendente osservare i modi in cui i confini urbani si riaprivano, accogliendo «l’altro» non umano. L’attenuazione del frastuono quotidiano permetteva addirittura di accorgersi un rumore impercettibile alle nostre orecchie: quello delle vibrazioni della Terra. Ma il rumore sismico causato dalle attività umane è presto ripreso, proprio come tutto il resto. Eppure, la pandemia ha cambiato radicalmente il nostro rapporto con il mondo. Su scala planetaria, abbiamo incontrato qualcosa di più potente, nonostante le sue minuscole dimensioni. È stata un’esperienza liberatoria, che ha reinserito l’umano tra gli altri viventi. Ma una più equa convivenza tra le specie è ancora un miraggio.
Cosa può dirci sulla sua ricerca intorno agli oceani?
Mi sono affidata alla comunità oceanografica internazionale per avere una raccolta di campioni e dare sostanza a una storia liquida. Grazie al contributo dei laboratori di Southampton (Uk), Locean (Jussieu, Fr), Alfred Wegener Institute (De), Woods Hole (Usa), in ogni oceano del pianeta ho raccolto, con il fisico Jean- Marc Chomaz, trentatré campioni di acqua a diverse profondità, dalla superficie fino a 8.000 metri. Questa collezione «narra» il viaggio secolare attraverso la memoria delle acque e le correnti oceaniche, la «circolazione termoalina». Dagli abissi alla superficie dei Mari del Sud, collega tutti gli oceani in circa 1500 anni, con un anello di correnti che distribuisce il calore globalmente. Tuttavia, con lo scioglimento dei ghiacci, un grande volume di acqua dolce si è mescolato con quelle dell’Atlantico del nord. Gli attuali sconvolgimenti climatici concorrono a ridurre il volume dell’acqua che precipita verso l’abisso, rallentando la circolazione termoalina. Gli scienziati hanno già avvertito sulle drammatiche conseguenze, una volta raggiunto il punto di non ritorno. Attraverso la mia installazione Memory of the Ocean, invito quindi a un tuffo nel cuore delle dinamiche dell’oceano, ponendo attenzione al pericolo che si corre quando non ci si prende cura degli elementi naturali.

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