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La sua scienza più profonda era di essere aperto alla speranza

PIER PAOLO POGGIOITALIA

Sapevo di Giorgio Nebbia attraverso i suoi articoli, in particolare i contributi, molto originali, che apparivano nel bollettino di Italia Nostra. L’ho conosciuto di persona verso la fine degli anni ’80, in occasione della vicenda dell’Acna di Cengio (Savona). Il suo approccio era assolutamente non convenzionale, non era più giovane ma partecipava direttamente agli incontri in alta Valle Bormida, e insieme a lui la moglie Gabriella, sobbarcandosi un lungo viaggio.
LA SUA IMPOSTAZIONE del problema era chiarissima e, nello stesso tempo, molto impegnativa. Andava bene contestare la fabbrica per il suo impatto sulla salute e sull’ambiente ma bisognava studiare i cicli produttivi, sapere esattamente cosa produceva e quali erano gli scarichi inquinanti, cosa aveva prodotto nel corso dei suoi cento anni di attività.
E QUESTO non per una pur meritevole conoscenza storica ma per poter intervenire in modo efficace, in termini di bonifica, di risanamento dell’ambiente e di controllo sulla salute dei lavoratori e della popolazione. Da allora è stato per me e per la Fondazione Micheletti, l’interlocutore principale, un infaticabile e inflessibile stimolatore di attività, iniziative, il più delle volte invisibili perché dedicate alla salvaguardia degli archivi. Il suo, in assoluto, come archivio Giorgio e Gabriella Nebbia, è tra i più importanti, non solo per i temi per cui è noto, vale a dire quelli ambientali, ma per tutto ciò che ha a che fare con la produzione, le manifatture, il lavoro, l’energia - su cui ha compiuto ricerche pionieristiche specie nel settore della dissalazione per portare acqua potabile nelle terre più povere e aride. Gli studi più rilevanti sono quelli che ha dedicato al ciclo delle merci, definendosi sempre orgogliosamente merceologo, allievo prediletto di Walter Ciusa, anche quando la merceologia veniva abolita, un po’ come se si potessero abolire le merci. Di cui, anche un po’ per provocazione intellettuale, metteva sempre in evidenza la dimensione materiale, naturale, il carico quantitativo sulle matrici ambientali.
IN CAMPO storico si considerava un dilettante, pieno di curiosità e sempre pronto a dare il suo piccolo contributo, quando si presentava l’occasione. Così quando nel 1993 abbiamo organizzato un convegno sul negazionismo, vale a dire sulla negazione dello sterminio degli ebrei d’Europa, e in particolare delle camere a gas, si inserì subito applicandosi allo studio della chimica dello sterminio, si entrava infatti in un ambito che padroneggiava perfettamente, e i deliri potevano essere combattuti, nella piena consapevolezza che non bastano le prove empiriche ma possono aiutare.
LA SUA vocazione, anche nelle situazioni estreme, come nella battaglia indefessa contro le armi, le merci oscene per eccellenza, era sempre «pedagogica», volta a far leva sul lato migliore della natura umana. Poteva quindi accadere che il suo approccio venisse considerato ingenuo, metodologicamente superato. Un errore di valutazione molto grave, dato che Giorgio era persona estremamente avvertita, libera da schemi ideologici, appassionato ma estremamente consapevole delle debolezze umane, e però ostinatamente aperto alla speranza. Ne è un esempio l’ultimo contributo che ha dato a una impresa un po’ azzardata, il volume «Alle frontiere del capitale» (Fondazione Micheletti-Jaca Book, 2018), della serie «L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico». Si tratta della sua «Lettera dal 2100. La società postcapitalistica comunitaria», un breve testamento. Giorgio Nebbia era credente, ho capito di che tipo e spessore in un incontro di tanti anni fa presso i padri Saveriani di Brescia. Con estrema naturalezza divenne il centro dell’incontro di preghiera, lasciandoci stupiti e spiazzati. Occorrerà molto tempo per conoscere Giorgio Nebbia nelle sue molteplici dimensioni.

* Direttore della Fondazione Micheletti

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